Perché non credere al Mito se è il linguaggio più antico, coevo con i fatti che si vogliono indagare? Perché non assumere il Mito quale dato di fatto da cui partire? Perché non cercare il senso del Mito dentro il Mito stesso?
Si avvicina a questo approccio l’archeologo che per 30 anni ha scavato il Palatino, divenendo così nei fatti esperto del culto di Vesta, di cui ha scritto nel suo curioso recente libro: Il sacro fuoco di Roma (Laterza). Se infatti vogliamo essere razionali e scientifici non possiamo non constatare che gli antichi costruivano città, incrociavano dinastie, muovevano guerre, erigevano culti in base a credenze religiose già assodate e radicate e mai disgiunte dalle altre sfere dell’esistere sociale (politica, economia, vita familiare). L’archeologo scrittore si è avvicinato al “cuore mitico” della misteriosa origine di Roma proprio focalizzando sull’importanza del culto del fuoco, del culto di Vesta. Essendo un ottimo archeologo ma non un esperto di Mito, l’autore ha sfiorato il tema sfuggendo per un soffio quello che ritengo essere il “cuore del cuore” del tema e della questione. Sì: esiste una “questione Roma”, in quanto Roma rappresenta un unicum rispetto alle altre numerose “città-stato” dell’antichità: sembra nascere già con una vocazione imperiale, combatte in modo radicale e totale contro chi più le è più vicino e più simile (etruschi, sabini, latini, greci del sud Italia), sembra possedere riti e culti segreti che ne sostanziano un'identità irriducibile a qualsiasi altra civiltà, italica e non italica. Ritengo che la strada per svelare di più il “segreto di Roma” sia proprio partire dal Mito greco, che in varie occasioni parla di Roma, si avvicina a Roma. I Greci infatti amano parlare e raccontare delle storie degli dei e degli eroi (il Mito appunto), mentre i Romani non amano parlarne. Non esiste Mito a Roma, ma solo il Nome e il Rito. Tutto a Roma è nomi e riti. Il parallelismo tra i dodici dell’Olimpo e gli dei romani spesso è convenzionale, tardiva sovrapposizione, oppure riecheggiamento sempre più sbiadito.
Bisogna risalire all’essenza, anche pre-olimpica, del Mito per trovare la via per l’Urbe. Roma possiede numerosi collegi sacerdotali maschili. La Grecia conosceva più collegi di sacerdotesse, rivelandosi al contrario molto anarchica e caotica in religione. Quella di Roma appare una religione che parte da un nucleo misterico e da quello ritualizza ogni aspetto della vita sociale, conservando però un atmosfera laconica, silenziosa, antiletteraria. La prima celebrazione pubblica del Mito a Roma tramite le lettere sarà quella di Virgilio, ad uso e consumo della politica di autolegittimazione imperiale praticata da Augusto, il primo vero Imperatore romano. E se la “grecità” di Virgilio avesse ragione? Noi “moderni” siamo diffidenti dell’operazione culturale augustea-virgiliana in quanto la vediamo solo quale operazione politica, e, quindi, falsificante. Ma gli antichi, in specie a Roma, non distinguevano tra politica e religione a nostro modo. Certamente Virgilio con l’Eneide si collega a una politica augustea di restaurazione di antiche tradizioni e di ritualizzazione mitica del nuovo potere imperiale, ma proprio questo fatto ci dovrebbe indurre a pensare a un nucleo di genuinità narrativa su cui hanno lavorato, pena l’insuccesso dell’intera operazione che non poteva fondarsi solo sull’imposizione forzata. Virgilio/Augusto sia mitologhi che mitogoni. Una mitogonia politica che parte dalla riscoperta però di un nucleo mitologico verace in quanto molto antico, come similmente fecero i Plantageneti normanni rispetto al Mito britannico, pre-sassone, di Artù e della sua epopea.
Così ho operato, “credendo” a quello che credettero gli antichi e ricercando i legami tra Mito greco e Roma quale nuovo silente Mito. Ho trovato numerose conferme di come il Mito possieda una sua coerenza interna, dietro i primi veli di caos e di anarchia narrativa, mostri una sua logica precisa, tale da rivelare una natura di “storia di stirpi e di riti”. Il Mito è sempre un “affare di famiglia”. Non è solo fiaba, né folklore, né romanzo, ma un’epos che parte dal rito, da una visione spirituale, dal Tempo dei “fondatori”. L’origine di Roma è nel Mito greco. Prima di Romolo il fondatore è l’arcade Evandro, figlio di Hermes e della ninfa Nicostrata, che fonda sul Palatino Pallanzio o Pallante, da cui “Palatino”. Nome che ricorda Pallas e il Palladio, anche se forse viene da una divinità locale: Pale, o Pales. L’ambiguità interlinguistica del nome è un segno della novità di Roma, posta al confine tra Etruschi, Latini e Greci della magna Grecia.
Il greco Evandro gioca un ruolo importante e persistente per Roma in quanto accoglie Heracle con la mandria di Gerione e regna sotto la tutela di una madre/ninfa che muta il nome assumendo il nome latino di Carmenta, sapiente artefice dell’alfabeto latino per adattamento dell’alfabeto pelasgico di Hermes/Kadmo. Carmenta è il segno vivente/parlante dell’imporsi di una colonia arcade-pelasgica su di un substrato latino con cui si incrocia. Lo stesso Anchise era ritenuto di origine arcade, mentre Dardano, il capostipite di Troia, era ritenuto o arcade o di origine etrusca. La scienza ci conferma il simile Dna tra Toscani e Lidi, da cui viene Tantalo/Pelope.
Heracle sul Palatino compie una duplice impresa: uccide Fauno, figlio di Hermes, che compiva ancora sacrifici umani colpendo gli stranieri; uccide il gigante/mostro Caco, altro Gerione, segno di un’attività sismica sotterranea in quanto vive in una grotta ed è uno sputafuoco. Evandro fonda un culto di Heracle e delle Muse sul Palatino. Tipica di Heracle è l’ostilità contro i sacrifici umani, mentre sono attestati sacrifici umani a Hermes anche in Grecia, in caso di pericolo di vita per una comunità. Il fatto che Fauno fosse ritenuto anche figlio di Pico (il Picchio) non ci fa uscire comunque dal Mito greco in quanto Pico era un amante dell’italica Circe, e lo Zeus padre di Hermes era Zeus Pico, venerato in Arcadia. Nicostrata/Carmenta è figlia di Ladone, fiume arcade di tipo sacrale e misterico in quanto connesso con Pan e con l’epopea di Lerna e di Sparta, nonché nome del serpente delle Esperidi.
È attestato ancora in epoca storica l’ultimo residuo di una palude sacra tondeggiante in quello che sarà poi il Foro di Roma. Gli antichi nelle paludi praticavano culti serpentini e ancora ai tempi di S. Agostino le Vestali allevavano un serpente rituale nel sotterraneo del loro tempio. Quello che unisce e avvicina Fauno quale culto romano in parte autoctono e il Mito greco sono ancora una volta Vesta, Hermes e sua madre: Maia. Sotto al Palatino vi erano quindi culti inferi (Caco, Heracle, la ninfa Carmenta) e misterici del fuoco. Altre divinità molto venerate nella prima Roma furono Vulcano e Maia. Vulcano deve essere la traduzione etrusca di Hefesto, come Maia divenne poi Ops, la dea dell’abbondanza, l’antenata di Flora, a sua volta strettamente connessa con i riti propiziatori delle Vestali. Maia, madre di Hermes, è connessa dal Mito direttamente con Vulcano. Unico caso di contaminazione diretta tra nome romano e nome greco. Vulcano non solo ama Maia ma addirittura sacrifica scrofe (di solito offerte a Persefone) gravide a maggio in suo onore, confermandola dea dell’accrescimento, della primavera.
Questo ci mostra la superiorità del culto femminile su quello maschile, il prevalere del “Fuoco” femmina sul fuoco “cattivo” maschile di Kako. Abbiamo poi altre tracce greche: Caco ruba parte delle mandrie di Heracle tirandole per la coda, con astuzia simile a quella di Hermes che ruba le mandrie olimpiche, i Lari sono figli inferi di Hermes con Lara, e Vesta possedeva un bosco sacro, prima che Numa lo tagliasse trasformandolo con un rito di purificazione in una “radura sacra”. Il bosco unisce Vesta con Fauno i cui sacrifici umani di stranieri si spiegano ritualmente quale sanzione contro chi viola la sacralità e i segreti dei culti del fuoco e del bosco di Vesta, a sua volta traduzione etrusca di Hestia, divinità del fuoco gemella di Hermes, tanto da condividerne la prima Delphi, l’episodio del tentato libidinoso assalto di Priapo, figlio di Hermes, e lo stessa collocazione olimpica condivisa.
Le Vestali che gettano in epoca storica fantocci infarinati dedicati a Kronos/Saturno nel Tevere dal ponte Sublicio confermano che gli arcaici sacrifici umani erano mossi dalla difesa del culto femminile del Fuoco. Proprio lui, Hermes, sembra rivelarsi il nume tutelare dell’origine di Roma, non Marte, probabile culto più tardo legato a un rito di fecondazione delle zolle tramite una lancia. Lo stesso Virgilio ricorda che è Mercurio che appronta la nave per Enea. Ricordiamo infine gli altri tre legami intimi tra Grecia e l’habitat in cui sorge Roma: Latino e Agrio (divinità campestre da cui ager) sono figli della divina Circe e di Odisseo, discendente di Hermes, mentre Italo è similmente figlio di Penelope e di Telegono, figlio di Circe e di Odisseo.
Roma appare quale continuatrice diretta del sacro fuoco di Ilio/Troia e la sua forza deriva anche dalla riunione della stirpe degli Argivi/Achei con quella dei Dardanidi/Troiani, custodi del Palladio e dei culti di Samotracia, dove Hermes ed Hefesto giocano un ruolo essenziale. La creduta origine troiana del Fuoco sacro di Roma ne spiega la maggior sacralità e importanza rispetto agli altri fuochi rituali-cittadini presenti a Cuma e in altre città greche italiche. Il fuoco di Vesta/Hestia a Roma è un fuoco imperiale, è muro spirituale che garantisce l’intangibilità e l’invincibilità di Roma. Certamente questo culto del Fuoco appare il nucleo base dell’unicità di Roma, insieme al tema del “nome segreto” di Roma e a riti connessi con la caprificazione.
Arriviamo quindi a Romolo i cui 12 avvoltoi riecheggiano il culto a Heracle, amico degli avvoltoi, e il cui rito di aratura “fondativa” ricorda tante arature dei Mito: da Osiride a Giasone, da Kadmo ad Admeto e Odisseo, trovando conferme anche dalla Bibbia nell’episodio di Eliseo che ara con dodici buoi quando giunge Elìa. Anche l’uccisione di chi viola il sacro solco non è nuovo al Mito greco. Le mura sono sempre sacre, come dimostrano Anfione e Zeto e le mura della Troia di Laomedonte. Altro segno importante per Roma, seppure di origine etrusca, è il fascio, sorta di talismano sacro che unisce la scure bipenne cretese con verghe unite insieme probabilmente proprie di riti di Hermes/Maia, come sembra dimostrare un vaso greco dove compare la coppia madre/figlio. Il fascio etrusco è però originariamente più semplice, e assomiglia al “tau”, come il bastone di Fenice (Vaso dell’“Ambasciata ad Achille”, Louvre), precettore di Achille, verga-asta propria dei culti dionisiaci-silenici, che ancora troviamo nella “stampella” dei patriarchi ortodossi, non a caso assai simile al caduceo di Hermes, la divinità che ama i gemelli.
Non sono gemelli i protettori di Roma, gli spartani Castore e Polluce? Essi appaiono pienamente “ermetici” in quanto ricevono da Hermes i prodigiosi cavalli e appaiono semidei della soglia. Hermes che è anche protettore degli atleti, delle gare (cavallo e pugilato) e che ha recato l’Uovo di Nemesi da Leda, da cui vengono le due coppie fatali: Castore, Polluce, Elena e Clitemnestra. Che sia Hermes, e non Marte, la figura che presiede all’allattamento di Romolo e Remo nello specchio di Bolsena? Il Lupo è tipico culto dell’Arcadia. Tutto ritorna. Il cuore di Roma è il Foro, sacro e quadrato. Hermes è patrono del numero 4, delle piazze, del mercato. Tutto ruota e verte verso quella silente Fenice del Mito greco che è Roma, il cui nome segreto ancora oggi ignoriamo, a sua perpetuazione!