C’è un uomo che vive per strada, abita sulle scale di un antico palazzo, alle spalle di un teatro. Ha occhi grigi e capelli bianchi. Ha la terra sotto le unghie e certe mani fragili che sembrano fiori messi a seccare in un libro. Un nido intrecciato di ossa e nervi appena coperto da un involucro di pelle. Quando nessuno lo vede, le tiene in grembo, vicine, tra pieghe del maglione. Immobili come vecchi cimeli, testimoni di un tempo troppo lontano. Ha negli occhi la paura di chi non dorme. Ha dentro la solitudine di una montagna all’orizzonte.
Le mani sono il mio sipario. Se sono venuto al mondo con due mani, è solo per tenerle sugli occhi. Se giro a occhi nudi vedo quanto è brutto il mondo. Lui vede me. E per un'assurda coazione alla mimesi finisco per essere più brutto di lui, spregevole, e indifferente. Sporco lo sono già. Così tolgo le mani dagli occhi solo quando voglio. Vedo la vita sfilarmi davanti, mentre io nel mio dietro le quinte, guardo. E scrivo. Che non assomiglio alle cose che scrivo e questo nel suo genere è triste, forse addirittura disonesto. Però ho deciso che io le mani dagli occhi non le tolgo più. Ho le scarpe rotte, i pantaloni troppo grandi, una giacca sdrucita che sfilo d’estate e infilo d’inverno. La mia casa è il gradino del civico tre, nella via che costeggia il teatro.
Il cielo è indeciso sul da farsi e forse pioverà, forse la pioggia continuerà a farsi aspettare senza degnarsi di arrivare. Ma all’uomo che serve il caffè, nel bar dietro il teatro, poco importa. Da dietro il bancone guarda il mondo di fretta affacciarsi per bere un caffè. Guarda gli avventori entrare, consumare la colazione e uscire dal locale. Conosce quel rito del buongiorno a memora: le dita che scivolano sul ferro caldo della macchina, il liquido nero che riempie la porcellana, il latte che addolcisce l’aroma. L’indice che abbraccia il manico della tazzina. C’è poi quel vecchio uomo stanco, sul ciglio della strada: il barista porta la colazione ogni mattina anche a lui. L’uomo si copre il viso, come si fa per ripararsi dal sole, e sorride. E poi, ogni mattina, alla stessa ora vede quella donna attraversare la strada mentre accompagna sua figlia a scuola.
“Elisa dammi la mano, dobbiamo attraversare”. C’è quell’uomo sul ciglio della strada, ogni mattina, sulle scale di casa di Mattia. Mamma dice che è povero e devo lasciarlo stare. Qualche volta gli abbiamo anche portato una pizza. Però lui non toglie le mani dagli occhi. Mamma dice che è cieco. Ma lei non conosce quel gioco. Così, quando passo mi fermo sul marciapiede opposto. Mi copro gli occhi. Dallo spiraglio delle mie dieci dita vedo i suoi occhi brillare. Lui non sa che io lo guardo, perché ho gli occhi coperti. Non può vedermi. “Elisa, dobbiamo andare dai. È tardi”. È sempre tardi. E io ho ancora sonno. E la cartella pesa troppo e la maestra oggi si arrabbierà perché non ho finito di colorare il disegno a pagina cinque. La maestra. Mi rimprovera sempre perché mi sporco le dita quando disegno. E la mamma mi stringe la mano e vorrei staccarmi da lei e tornare a dormire. Però poi quando suona la campana d’ingresso lei se ne va. E vorrei che le nostre mani fossero due pezzi di puzzle incastrati.
Al primo piano del civico tre, nella via che fiancheggia il teatro, abita un vecchio fotografo. Vive con sua moglie e la loro vita è tutta racchiusa in un album di foto gelosamente custodito dall’uomo, sul comodino, insieme a una bottiglia di vino rosso. Ogni sera, la moglie porta la bottiglia nella camera da letto, col modo di ondeggiare che la caratterizza e sembra essere un suo personalissimo rimedio alla mancanza di equilibrio della vita. Ogni sera brindano al loro amore. Quel brindisi è più che un’abitudine antica, un loro modo per fermare il tempo. Un bacio della buona notte, dolce, sempre lo stesso da quarant’anni. Malvasia. Ogni mattina, all’alba l’uomo aspetta che i raggi di sole acerbo entrino, lenti, pigri, che illuminino le caviglie addormentate della moglie. Poi cattura un po’ di bellezza nella pellicola microscopica della sua macchina. Ferma il tempo e fotografa sua moglie dormire. Le rughe sul volto, i capelli bianchi. La mano piccina come una conchiglia sulla guancia. C’è quell’uomo, sul ciglio della strada, che lo spia e conosce il suo rito. Anche lui, è lì da quarant’anni. Il fotografo lo sa e conosce anche il suo, di segreto. Lo vede scrivere, all’alba e al tramonto, quando il mondo non sospetta. Quando il sipario della notte cala e scioglie quell’intreccio di dita.
"Voglio venire con te, mamma". Le tue mani che scivolano sulle mie, saldamente appese alle ginocchia. "Ti prego portami con te" le tue mani piccole ora a snodare i nodi dei miei pugni grandi. E qualche altro nodo. Quelle mani sempre sporche di colori. Hai il mondo in scala sul palmo della mano. Le lacrime iniziano a uscire dagli occhi, prima piano, poi tutte insieme. Io non ti fermo perché so che se alle cose non si da tempo, col passare del tempo saranno loro a non darne a noi. Dieci minuti dopo siamo ancora fuori da scuola. Le tue braccia che mi fanno da mantello, la tua testolina è la mia maschera per affrontare il mondo. Le tue mani la mia tela. Coltivo dentro di me quest’idea che ogni mano che ti toccherà inevitabilmente ti sporcherà. “Devo andare, Elisa” ti dico. E invece vorrei restare qui con te. Che non abbiamo bisogno di nessuno, io e te. Abbiamo il nostro nido di mani in cui crescere, che i tuoi anni più i miei fanno ridere il mondo. Ciao Elisa, vado a lezione anch’io.
È una mattina di Dicembre, di quelle così bianche da sembrare preconfezionate. Il vecchio barista ha servito la colazione all’uomo che vive sul ciglio della strada, come ogni giorno. Gli ha portato anche una spessa coperta trapuntata. La neve ha coperto di bianco quelle mani che sembrano gomitoli attorcigliati di ossa e nervi. L’uomo gli ha sorriso, in quel modo un po' obliquo, un po' colpevole che lo caratterizza. Poi ha chiuso le mani sugli occhi, come un sipario. Insieme alle mani, però, ha chiuso anche gli occhi.In quello stesso momento, la piccola Elisa passa con la sua cartella grande. Le basta uno sguardo, dal ciglio opposto della strada, per accorgersi del buio dietro quelle mani. La bambina inizia a urlare con tutto il fiato che riesce a trovare nel sacchetto di ossa che è il suo corpicino. Al primo piano del civico tre, un fotografo sviluppa il suo millesimo rullino. Le ultime dieci foto raccontano la storia di un uomo che chiude gli occhi.