Questo scritto è dedicato a Ludwik Zamenhof, medico e scrittore polacco fondatore dell’Esperanto. Proprio in questo Aprile del 2017 ricorre il centenario della sua morte.
Aprile è il più crudele dei mesi. Genera lillà dalla terra morta, mescola memoria e desiderio, desta radici sopite con pioggia di primavera [1]
Conosco il silenzio cupo, pesante, la sensazione di sordità che si prova quando il suono delle parole sembra non riuscire ad attraversarci, quando la nostra segreta fonte, come prosciugata, non infonde il suo respiro alla scrittura. La parola non diventa voce, non si fa corpo plasmato dal nostro cuore, non si concede al nostro bisogno di comunicare emozioni e pensieri.
Come descrivere la tristezza, lieve e insinuante, che, senza farsene accorgere, ci entra nell’animo e, pian piano, diviene abbandono di quel sentire vitale che alimenta il nostro essere nelle cose con interezza: è come guardare stando dietro a un vetro senza riuscire a ricevere i suoni di coloro ai quali vogliamo disperatamente parlare, senza riuscire a farci sentire; è assenza; è lontananza; l’ascolto è muto; tace lo stupore che ci fa sussultare; invano si desidera la gioia di tracciare segmenti di tenerezza.
Non so dire come accade. Somiglia a quel grumo di nulla che ci soffoca quando cerchiamo i volti delle persone che abbiamo perduto e non riusciamo a ritrovarli, non riusciamo più a ricordare il loro profumo, non riusciamo più a sentire il bene profondo che riempiva la nostra anima al solo percepire la loro presenza. Non c’è conforto nell’antico dire della preghiera.
Le cose diventano ombre e svaniscono; il ricordo ritorna in un’eco [2]
Se le parole ci abbandonano, se non si offrono al nostro abbraccio, entriamo in quella condizione di solitudine che è struggente desiderio di ciò che si è amato e poi perduto.
Si attende, si prova ad allontanare la consapevolezza che la separazione è dentro ad ogni incontro, e non sappiamo mai quando sarà l’addio.
Si resta in ascolto; ci si affida alla speranza “quella cosa piumata che viene a posarsi sull’anima”; si aspetta che le parole giuste si facciano ritrovare, che ancora una volta ci concedano il dono di poterle rapire alla poesia che è capace di risvegliarle dal sonno dell’amarezza, di amplificarne il sospiro, di attingere al mistero che è sorgente di ogni bellezza.
Sento passare sensazioni, emozioni, percezioni, mi lascio essere triste, con indulgenza, e penso che questo è un sentimento che ci rende umani: è il vento, è la trasparenza di un arpeggio sul pianoforte, è il delicato tocco di una carezza, è l’odore di un libro, è il sapore di un amore, è commozione evocata da immagini piene di dolcezza, illuminate da invisibili fonti di luce, ma ancora non sono parole capaci di dire. Appaiono come le piccole figure che si muovono nel cerchio dello zodiaco, lo zoo di stelle al quale talora ci volgiamo per guardare i fantasmi delle nostre paure.
E poi accade qualcosa: un sentore, il gocciolio di pioggia dalle grondaie, il giallo di un narciso, un battito d’ali. Come un soffio lieve entrano nel nostro cuore. Senza trama o racconto, senza inizio né fine, le parole ricominciano a comparire con garbo e gentilezza, si muovono danzando nella nebbia che si dirada; si avvicinano sempre più fino ad incontrare i nostri occhi e il nostro ascolto. È una musica ondulata e flessuosa quella che risuona attraverso il loro corpo
Pensieri si levano sulle brezze del cuore, e la lingua trova la sua voce [3]
È una gioia segreta, intima che non potrà essere condivisa se non nella sua espressione visibile: la gemma che inaspettatamente compare sul ramo che credevamo secco. Le emozioni riprendono energia e si torna a vedere, si respira nel profondo dell’anima come se la vita si fosse riaccesa, con il desiderio di essere generosi, di donare.
Le parole fluiscono senza sforzo, si innalzano con uno slancio travolgente e si librano su un universo sconfinato tutto da descrivere. Possiamo udire di nuovo il loro rincorrersi cadenzato, il loro bisogno di risuonare e rinnovarsi. È lo stupore dell’innocenza, è la contentezza del giuoco ritrovato, del sentirsi perdonati. È uno stato di grazia che si riverbera nel paesaggio della realtà come il fugace suono del vento. È un crescendo che vivifica i nostri nervi, che dà conforto come quando offriamo le nostre ossa affaticate al tiepido calore del sole che porta guarigione.
Tutte chiedono di essere dette, di essere raccontate per poter tornare a destarsi, per ricevere nuova forza. Si addensano, vanno a toccare tutti i sensi per risvegliare ricordi che hanno bisogno di loro per essere detti, per percepire il mutamento che sempre è presente nel ciclico ripetersi delle cose.
Sulla carta bianca e dura un universo attende di poter esistere [4]
Arrivano cangianti come le immagini di un caleidoscopio. Si illuminano come astri di costellazioni che eternamente compaiono e scompaiono.
Accetto l’invito a navigare nella loro luce: la scrittura è una forma del viaggio che ognuno, scrittore o lettore, sta compiendo. Per condividere il cammino occorrono reverenza e rispetto, ma anche premura, quel fare con cura e sollecitudine che è un modo per essere accanto agli altri, per assecondare con leggerezza il mutare delle cose, il variabile trascolorare del percorso.
Tutto ciò che abbiamo appreso torna ad essere nostro, si fa linfa vitale e trasforma il nostro sentire in esperienza di condivisione, in fiducia.
Tutto ciò che abbiamo letto, ascoltato, visto diviene codice interiore capace di informare di sé il nostro corpo e il nostro cuore, che si immergono nel ritmo fluido e generoso del sentire.
Grande è il senso di meraviglia nel contemplare il nostro mondo: la perfezione delle stelle, la bellezza delle montagne e dei fiumi, l’aria pura e corroborante dell’oceano [5]
Sui prati, già caparbiamente inverditi, stanno distesi nel loro celeste nitore “gli occhi della Madonna”: “quell’azzurro fiorellino dall’occhio luminoso” si chiamava anche nontiscordardime, simbolo d’amore imperituro, e c’era in quei nomi tutta la dolcezza che ci legava stretti alla nostra Madre germogliante che, dopo la lunga gestazione dell’inverno, ridava alla luce le sue creature floreali perché ricordassero a noi tutti il suo amore fatto di sguardi benevoli, di quella indulgenza sempre incline a perdonare, a compatire.
Iris e narcisi raccontano di amori antichi, le pratoline hanno il biancore dell’alba che trascolora nel rosa della prima aurora a primavera, il glicine è l’amicizia.
Viene dalla Persia il lillà che sboccia schiudendo i suoi minuscoli fiori che se ne stanno stretti stretti l’uno all’altro a formare quelle piccole pannocchie dal languido profumo che mostrano le loro delicate tonalità dal bianco al viola come un cielo sul mare del mattino. Quando la Pasqua cadeva d’Aprile faceva bella mostra di sé sulla tavola apparecchiata di bianco per celebrare il rito della rinascita.
E non dispiace la pioggia che cosparge di lacrime iridescenti l’odoroso giardino della Natura che ha disteso il suo manto lieve sulla Terra che, ancora una volta, con pazienza e perseveranza ha nutrito le sue creature, le ha alimentate con accuratezza e riguardo nel buio del suo ventre.
E c’è in questo un profondo significato simbolico che invita a comprendere il vivere nel silenzio, il custodire la vita quasi con devozione, senza forzature, senza arroganza, la capacità di attendere e di credere che la luce ritorna, che ogni tramonto trasmuta in un’alba, che l’amarezza si dissolve e lascia posto a un dolce sentire, e dopo il temporale il sole è tiepido e generoso di viole.
Per condividere il piacere di assecondare le parole, per ringraziarle del loro esserci compagne fedeli, per celebrare la gioia figlia della paura del loro silenzio, del loro abbandono, vorrei coinvolgere i lettori in un giuoco che le vede protagoniste.
Prendete un foglio bianco non troppo sottile, scrivete tutte le parole in grassetto che costellano questo scritto, gettatele sulla pagina in ordine sparso cercando di occupare l’intero spazio, sceglietene una e partendo da lì andate ad unire tutte le altre con un unico tratto assecondando la sequenza che la mano vi suggerisce; fatelo possibilmente senza staccare la penna. Ne emergerà un disegno che mi piace chiamare costellazione dato che le parole scritte emergono in evidenza proprio come stelle di una figura celeste.
La costellazione sarà la vostra costellazione di quel preciso momento e non la disegnerete mai più allo stesso modo. Quella costellazione custodisce una storia, un racconto che le parole vi hanno svelato o forse soltanto suggerito: se ne avrete tempo e desiderio provate a dire o a scrivere una breve storia usando tutte le parole della costellazione. Raccontatela, ricopiatela, proponete ad altri il giuoco della costellazione. Le parole ve ne saranno grate.
A cura di Save the Words®
[1] T. S. Eliot, La terra desolata, Quattro quartetti, Feltrinelli, 2009
[2] Lu Ji, L’arte della scrittura, Guanda, 2002
[3] Id., ibid.
[4] Deng Ming-Dao, Il Tao per un anno, Guanda, 1993
[5] Id., ibid.