Nostro Signore mostrò al prigioniero il vaso grande e prezioso che conteneva il sangue santissimo raccolto da Giuseppe…
(Il romanzo della storia del Graal o Giuseppe d’Arimatea, di Robert di Boron)
La questione del Graal è una questione di famiglia. Già nel primo romanzo di Chretien, il Perceval. Lo zio eremita gli spiega infatti che il Re pescatore è figlio del Re nascosto nutrito dal Graal e che costui è suo fratello, altro fratello della madre del nostro eroe e il Re pescatore è su figlio. Biancofiore è figlia di Gornemant. La spada speciale che il re Pescatore dona a Perceval viene da una sua bella nipote, che è quindi cugina di Perceval e potrebbe essere la stessa nella giovane dama che reca il Graal in rituale processione davanti al nostro sprovveduto eroe.
La questione del Graal è a questione di una stirpe sia di sangue che spirituale che lotta per la perpetuazione della propria missione: la custodia del Graal e il servizio al Graal in messianica attesa del cavaliere perfetto che completerà questa antica e sacra missione. L’errore dei commentatori moderni e dei maldestri scrittori fantasy contemporanei è un errore tipico di una mentalità materialistica, aliena a quella del tempo di questi racconti. Il Graal non è il simbolo o il trofeo di un “sangue eletto” ma al contrario è la più preziosa reliquia di Cristo che crea essa stessa la sua stirpe attraverso un’elezione spirituale. Lo spiega benissimo Robert De Boron nel suo Giuseppe d’Arimatea.
Lo scrittore narra come inizia questa stirpe sacrale di cavalieri: proprio da colui che rappresenta l’archetipo vivente della nuova cavalleria cristiana, quel Giuseppe d’Arimatea di cui parlano i Vangeli canonici, e tanti testi cristiani apocrifi come il Vangelo di Nicodemo, gli Atti di Pilato e la Vendetta del Salvatore, e che ebbe un ruolo così provvidenziale nel salvare il corpo di Cristo prendendosene cura e onorandolo nel seppellirlo nel suo nuovo sepolcro nel giardino vicino al Getsemani. La coerenza narrativa e mistica di Robert De Boron appare perfetta: Cristo premia Giuseppe per il suo coraggio e la sua fedeltà che hanno servito in modo così essenziale la volontà di Dio, fungendo come da ponte tra la morte e la resurrezione del Figlio di Dio, e lo premia affidandogli il Graal e con il Graal un insegnamento riservato e un compito unico: pellegrinare fino alla Bretagna e fino ad Avalon, terra vista quale “estremo Occidente”.
L’opera di Giuseppe diventa un rito spirituale fondante la cavalleria cristiana quale cristofania e cristomimesi. Da Giuseppe viene Bron, Alano e avanti per nove generazioni fino a Galaad l’eroe che unirà la stirpe di Salomone con quella dei Re pescatori custodi del Graal. Il tema del Graal appare quindi non solo materia di ricerca per i migliori cavalieri di Artù a si rivela argomento più vasto, profondo e con implicazioni mistiche, spirituali, quale frutto diretto del Vangelo di Cristo e della Redenzione realizzata dal Figlio di Dio. Il racconto del Lancelot-Graal visualizza con grande efficacia e suggestione questa connotazione ebraica e biblica della stirpe graalica/cavalleresca raccontando la tradizione della nave che Salomone fa costruire quale Arca simbolica custodente la spada invincibile di Davide. Tale nave rappresenta come un messaggio in bottiglia che attraversa migliaia di anni per giungere al clan di Giuseppe di Arimatea e su di essa saliranno secoli dopo Perceval, Boor e Galaad come in un’investitura finale dove inizio e fine si congiungono. Tale nave sacra e simbolica reca anche due altri segni importanti: un letto, dove la spada di Davide viene adagiata, e tre rami che vengono da alberi tratti al Paradiso terrestre da Adamo ed Eva. La continuità perfetta fra i progenitori dell’umanità e i migliori cavalieri è assicurata.
Avalon e i vari “Castelli del Graal” dove il tempo scorre più lento e la madre di Artù sembra più giovane del figlio rappresentano un aspetto della medesima realtà. Terra eletta e stirpe eletta splendono e si occultano insieme. La questione e l’epopea è la medesima per entrambi. Come inscindibile al Graal appare l’immagine della Tavola, “rotonda come il mondo”. Il “Giuseppe d’Arimatea” e il “Lancelot- Graal” ci mostrano una stirpe santa che è plasmata sia dal Graal che dalla sua Tavola la quale anch’essa dispensa la grazia di Dio ai cuori e li giudica in una sorta di istantanea e invisibile ordalia. Chi non è degno non riesce ad avvicinarsi alla Tavola e se osa sedersi ad essa viene immediatamente punito a morte. Al contrario la Tavola unisce, santifica e rincuora i giusti e i cavalieri virtuosi.
La stirpe graalica si snoda attraverso tre Tavole: quella di Cristo, il primo modello, quella similare di Giuseppe d’Arimatea e quella, ultima, di Merlino, copia fedele della copia fedele di Giuseppe. Robert de Boron ci mostra il clan di Giuseppe di Arimatea quale nuovo Israele pellegrino, quale Chiesa cavalleresca che si muove di terra in terra fino alla Britannia. Il “popolo del Graal” cammina a piedi nudi, vestito poveramente, portando in una continua processione un’arca contenente lo stesso Graal, come Israele nel deserto con la sua Tenda e la sua Arca.
Il racconto di Robert è così coerente e pienamente compatibile con le altre versioni, che insieme configurano un corpus organico, una foresta di racconti graalici, da attirare la nostra attenzione su di un altro aspetto interessante: gli elementi ebraici della storia, presenti in tutte le versioni. Tutti i racconti del Graal e della Tavola contengono numerosi nomi ed elementi culturali israelitici. Molti sono nomi ebraici: Galaad, nome di uno dei monti santi di Israele, Excalibur, Re Lot parente di Galvano. Lo stesso tema del Nome e della domanda relativa a un nome, ripreso nel Parzival di Von Esembach nella scena del cavaliere templare che non può rivelare il suo nome, come l’angelo di Giacobbe, è un tema spirituale tipicamente ebraico, biblico e salomonico. Come pure il tema della ferita alla coscia da parte dei vari custodi del Graal, o di chiunque, che osarono guardarci dentro, compito spettante solo a Galaad rinvia anch’essa alla scena della lotta angelica di Giacobbe.
Tutto ciò rende più credibile il racconto di Robert de Boron in quanto ci parlerebbe, storicamente, di una piccola comunità di ebrei cristiani che lasciano Israele per sfuggire alle prime persecuzioni e si recano prima in Gallia e poi in Britannia, da cui il racconto della “manica” prodigiosa di Giuseppe, che ancora oggi dà il nome al mare tra le due terre. Coerente con questa idea di una comunità nuova e giovane di ebreo-cristiani appaiono i numerosi mini-catechismi che costellano i racconti medioevali dei nostri cavalieri. Si tratta di un cristianesimo giovane che aveva bisogno di rammentare spesso i “fondamentali” di una fede incentrata sulla Pasqua (e non sul Natale). Ai cavalieri viene raccontata/insegnata la Pasqua con vivezza e grande sintesi, come evento da poco tempo avvenuto, vivo, illuminante. Giuseppe d’Arimatea ha il compito di evangelizzare le terre che attraversa, e specialmente la Britannia e l’Irlanda, tramite lo stesso Graal.
Il compito della stirpe eletta dei cavalieri di Cristo è paradossale: “porre fine ai tempi avventurosi”, “por fine al regno di Logres”, cioè quella funesta “terra di orchi” e di magie che era diventata la Britannia prima dell’evangelizzazione graalica. La natura della stirpe del Graal quale emerge dai primi racconti medioevali è quindi del tutto opposta ai temi celtici o fantasy oggi romanticamente in voga. Lo scopo infatti è distruggere i residui magici non esaltarli come fanno studiosi ideologizzati o appesantiti da pregiudizi anticristiani. I testi parlano chiaro, fin dal Perceval di Chretien: il Graal contiene un’ostia e nutre come un ostia anima e corpo dei Re pescatori malati. Non tutto è riducibile all’aspetto eucaristico ma il tema eucaristico è essenziale e non eliminabile dalla materia bretone.
Le imprese dei cavalieri possono essere interpretate in gran parte quali allegorie e manifestazioni dei sacramenti del battesimo e della cresima e la stessa investitura cavalleresca è un “sacramentale”, un’iniziazione. Un ultimo accenno alla stirpe di Artù, non direttamente graalica ma connessa con il compito graalico quale re dei cavalieri e loro difensore, giudice, garante. Artù rappresenta il lato essoterico, altrettanto sacrale, del nucleo interno del mistero del Graal. Nei racconti graalici e in Goffredo di Monmouth compare il tema imperiale romano. Artù quale figlio di un figlio di Costantino: Aurelio Ambrogio, cioè Uther Pendragon, l’unico comandante militare romano che resta in Britannia nel 400 alla ritirata delle legioni nelle zone continentali.
Storia non così irrazionale se si considera che Costantino nasce a York e vi ritorna negli ultimi anni di vita di suo padre Costanzo Cloro, il Cesare di Britannia, Gallia e Spagna. La studiosa Norma Goodrich in un suo ottimo studio analizza etimologie e toponimi inglesi giungendo all’intelligente conclusione che la vicenda di Artù si colloca tra il 400 e il 500 d.c. tra gli abbandonati valli di Adriano e di Antonino e la costa del Galles. Il racconto di Goffredo di Monmouth che parla di 12 battaglie vinte da Artù contro i sassoni e di circa cinquanta anni di pace garantite da questo Re valoroso appare sempre più attendibile.