Primo Levi è rinchiuso ad Auschwitz dal febbraio '44 al gennaio '45. Dopo la liberazione, costretto da un'urgenza irrefrenabile di raccontare e raccontarsi, si dedica febbrilmente alla stesura di Se questo è un uomo, che, concepito già durante la prigionia, viene interamente sviluppato dal dicembre '45 al gennaio '47. Jorge Semprùn è confinato a Buchenwald dal gennaio '44 all'aprile '45. Per 16 anni rifiuta di scrivere della guerra, cercando nell'impegno politico la spinta a sopravvivere. Negli anni '60 esordisce con diversi lavori che lasciano progressivamente emergere il suo vissuto di deportato e solo nel '92, dopo il suicidio di Levi, elabora La scrittura o la vita, unica opera interamente autobiografica.
Due vite segnate dallo stesso dramma, travolte dalla stessa tragica esperienza. Eppure, i cenni biografici bastano a testimoniare le vie tortuose attraverso cui si fa strada la memoria in chi ha sperimentato situazioni di violenza; quella che in alcuni erompe come frenesia ostinata ed essenziale per continuare ad esistere, s'irrigidisce in altri in una consapevolezza a lungo inesprimibile senza il rischio di spezzare fragili equilibri. E non è solo questo a impedire che il processo di appropriazione di un passato tormentoso assuma un andamento lineare. È sufficiente pensare al destino editoriale di Se questo è un uomo (presentato nel '47 a una società impreparata ad accoglierlo, è pubblicato da Einaudi nel '56) per riconoscere le molteplici prospettive e i differenti ruoli che si generano da ogni contesto di violenza; la memoria di un evento doloroso si configura sempre come un fenomeno articolato al cui interno, accanto alla voce di chi ha subito immani atrocità, trovano posto l'inclinazione alla negazione e all'occultamento di chi le ha compiute, i silenzi e la vergogna di chi le ha tacitamente accettate, i tentativi di giustificazione e assoluzione di chi non le ha contrastate.
Pochi espliciti riferimenti e a delinearsi subito con chiarezza non è solo la problematicità di una riflessione che intenda occuparsi di violenza e memoria, ma anche l'impossibilità che oggi una simile riflessione prescinda dal genocidio ebraico. La singolarità di un evento inedito nelle proporzioni e nelle dinamiche del suo concretizzarsi (divenuto paradigma dei crimini del XX secolo) si è, infatti, tradotta in un altrettanto singolare storia della sua rievocazione, tanto che col tempo parlare di memoria e violenza ha sempre più rimandato alla necessità di confrontarsi con la Shoah; mai come negli ultimi anni, però, l'esigenza di interpretare e (se possibile) comprendere una tale catastrofe ha promosso il dibattito, favorendo il diffondersi di uno straordinario interesse per i temi del ricordo e della dimenticanza, della vendetta e del perdono, e moltiplicando le occasioni per tornare (o iniziare) a interrogarsi sulle efferatezze che hanno segnato il '900.
Ostacolato dall'incapacità di ascolto della società del primo dopoguerra con la sua smania di ricostruire e la sua fretta di dimenticare, il difficile percorso di formazione di una memoria collettiva dell'Olocausto si era avviato in molte nazioni negli anni '60 dopo il processo ad Eichmann; lo spazio in esso riservato per la prima volta ai sopravvissuti aveva influito radicalmente sulla percezione pubblica dell'eccidio, suscitando una sensibilità nuova per la categoria della “vittima”. Agevolato da un clima culturale sempre più contraddistinto dalla privatizzazione delle pratiche di conservazione della memoria e dalla valorizzazione delle storie di vita vissuta, l'ultimo ventennio del secolo, con la scomparsa della generazione di chi era scampato alla tragedia, e la maturazione della generazione successiva, ha poi consolidato quella propensione a fare del racconto di un'enorme tribolazione un indizio inconfutabile dell'attendibilità del suo relatore e del testimone individuale il protagonista di ogni ricostruzione sulla Shoah.
L'incalzante bisogno dei padri di trasmettere un patrimonio inestimabile di ricordi vivi altrimenti condannati a perdersi e il pesante carico di interrogativi ereditato dai figli inevitabilmente inquinati dagli stessi ricordi hanno contribuito in maniera rilevante a incrementare (talvolta ad avviare, anche a molta distanza dalla guerra) l'adozione sistematica di politiche commemorative senza precedenti e a convertire un passato a lungo rimosso dalle coscienze in un autentico mito di fondazione per il mondo occidentale, richiamando l'attenzione internazionale sull'irrinunciabile valore che un riconoscimento pubblico e istituzionale della propria sofferenza riveste per chiunque sia stato così straordinariamente provato.
Tutto questo ha, inoltre, influenzato tanti studi contemporanei incentrati sui processi di organizzazione dei ricordi traumatici, gettando nuova luce sui conflitti che esplodono quando si tenta di raccontare la violenza e che spesso oppongono le narrazioni di chi interpreta le istanze delle vittime ai più generici discorsi ufficiali. In Italia, ad esempio, dagli anni '90 si sono attuati progetti specifici di salvaguardia della memoria delle stragi compiute tra il '43 e il '45 dalle truppe nazi-fasciste in ritirata; storie diverse nelle modalità di scatenamento dei massacri, identiche perché quei massacri - riferiti dai superstiti come esplosioni di una ferocia inattesa, sopraggiunta a sconvolgere inermi collettività estranee al conflitto - sono divenuti nella retorica della Resistenza il sacrificio di combattenti anti-fascisti nella guerra di liberazione nazionale. Pur nell'impossibilità di ricomporre la frattura tra i due piani del ricordo e nella consapevolezza della legittimità di entrambi, l'accento posto sulla dimensione privata e soggettiva del dolore unita all'immediatezza del resoconto orale ha quantomeno permesso di maturare una diversa comprensione storica dell'abisso che separa la prospettiva testimoniale da quella politica, e di mostrare come la costruzione di una memoria condivisa capace di favorire la solidità del corpo sociale non possa prescindere dal considerare gli effetti devastanti che quella violenza ha riportato su coloro contro cui si è scagliata.
Di fronte all'evoluzione di un modello di guerra totale fondato sull'abbattimento del confine tra militari e non, e sul ricorso ad atti di crudeltà diretti a colpire le categorie più deboli della popolazione, e d'altro canto nel quadro di una sensibilizzazione crescente verso una cultura dei diritti umani, la rilevanza assunta dalla voce delle vittime ha finito per caratterizzare la memoria sociale dell'Occidente come memoria del male “sofferto”, incidendo anche sull'indagine delle soluzioni giuridiche atte a rispondere agli interrogativi posti da queste dilaganti violenze di massa. Se l'internazionalizzazione del processo penale ha sancito la necessità di individuare e condannare i responsabili dei più aberranti reati contro l'umanità, la costituzione negli anni '70 delle Commissioni per la Verità e la Riconciliazione ha tentato di dare risposta alle richieste di riabilitazione e risarcimento di quanti erano stati colpiti da quei reati.
Nella pluralità di posizioni che animano il confronto internazionale, tuttavia, non manca chi intuisce i risvolti insidiosi di questa tendenza a monumentalizzare e sacralizzare una memoria dell'Olocausto univocamente ritagliata sul punto di vista delle vittime; una memoria che in parte ha ceduto al richiamo delle facili semplificazioni, assolutizzando il divario tra destinatari e autori della violenza; che ha stigmatizzato la disumanità dei carnefici per salvare l'uomo comune dal sospetto di una sua parentela con quella mostruosità, ostacolando la crescita di una cultura della colpevolezza e della corresponsabilità; che si è focalizzata sull'eccezionalità di questa pagina buia del passato recente, investendola di una portata sovrastorica che l'ha sottratta al suo tempo e ne ha fatto l'espressione di un male talmente altro da ogni normalità da non poter essere concepito se non come irripetibile, indebolendo la capacità di riconoscere i germi della crudeltà e del sopruso iscritti nella più feriale quotidianità di ogni esistenza.
È un terreno difficile su cui muoversi, perché in certi casi la volontà di indagare può risultare offensiva (se non immorale) e il bisogno di comprendere contiguo all'intento di giustificare. Eppure, oggi il pensiero storiografico e antropologico sottolineano l'impossibilità di capire la storia senza che si capiscano gli uomini che l'hanno fatta, tutti gli uomini, non per equiparare vittime e aguzzini, ma per accogliere la verità di entrambi; al dilagare di studi sulla memoria si è unito il proliferare di riflessioni sulla violenza, volte a investigarne la natura e le manifestazioni, a scardinare le rappresentazioni che ne fanno un evento contrario alla cultura e alla civiltà per riaffermarne la costitutività di ogni contesto sociale e politico. Per quanto naturale, l'attitudine a fondare sul passato la coscienza della propria unicità e ad eleggere le circostanze tragiche del proprio vissuto come le più significative per la (ri-)scrittura dell'identità diventa costruttiva se aiuta ciascuno a riconoscere la complessità del proprio essere e agire nel mondo, a realizzare che i torti ricevuti non mettono al riparo dalla possibilità di infliggerli a propria volta e che la sofferenza patita può trasformarsi più o meno consapevolmente in un'autorizzazione a restituirla, a vigilare sulla propria facoltà di compiere il male e a non distogliere lo sguardo da quello già attuato.
Di fronte alle esperienze più traumatizzanti, allora, come conciliare il doveroso ricorso alla memoria quale antidoto al riproporsi delle atrocità passate con il rischio che un richiamo ostinato della violenza si faccia a sua volta aggressivo? Come impedire che l'efficacia delle parole venga soffocata dal timore della censura e dalle manipolazioni della storia, evitando che l'esasperazione del ricordo invada il tempo del lutto e della ricostruzione? Come contestare l'importanza del silenzio, quando la sola dimenticanza sembra permettere di ricomporre il tessuto sociale? Sono interrogativi difficili, deputati forse a rimanere senza risposta. Eppure, un tempo consacrato alla memoria come il nostro pare avvalorare che sia fondamentale porsi la domanda, perché (parafrasando Semprùn) non ci può essere vita senza scrittura, che solo il ricordo (pur frastagliato e sofferto) valga a sanare i traumi irrisolti della storia, che le questioni rimosse (ma non assimilate) siano destinate a ripresentarsi, che di oblio sia lecito che si parli al termine (e non in sostituzione) di un rigoroso percorso di recupero del passato.
Ma davvero questi sono dilemmi che appartengono esclusivamente al nostro tempo?
Continua il 23 Aprile