Viene definito dalla guida Lonely planet "uno dei percorsi più lunghi e avventurosi del mondo" e chi ha avuto l'opportunità di affrontarlo può confermare quanto questa affermazione corrisponda a verità. Con Muller Trek si definisce il percorso che collega la regione indonesiana del Kalimantan Timur con il Kalimantan Barat, divise da una spina dorsale di montagne avvinghiate da uno degli ambienti più seducenti del pianeta: la foresta del Borneo.
Escludendo la zona costiera, meta rinomata dei commercianti asiatici dalla notte dei tempi, la parte interna del Borneo ha rappresentato fino alla prima metà del 1800 terreno di sfida per esploratori e avventurieri, che si sono trovati a scontrarsi oltre che con le intrinseche difficoltà ambientali anche con l'ostilità dei famigerati cacciatori di teste di etnia Dayak. Nonostante il percorso sia stato effettuato in tempi più recenti da esploratori italiani quali Alfonso Vinci (1978) o J. Palkiewicz (1986) questa avventura è rimasta dimenticata per parecchi anni dagli escursionisti nostrani, complice anche la scarsità di materiale illustrativo che permetta una sensata preparazione della stessa.
Se ai giorni nostri risalire i due maestosi fiumi Mahakam e Kapuas che solcano le due regioni è diventata pratica abbordabile anche a turisti con forte spirito di adattamento, la conquista della giungla interna rimane sempre impresa destinata a persone particolarmente motivate e allenate, predisposte a confrontarsi con le peggiori difficoltà ambientali.
Il percorso può essere effettuato da est verso ovest o viceversa e presenta sostanzialmente problematiche e organizzazione logistica equivalente. Partendo da est dopo aver risalito il fiume Mahakam è necessario fare tappa a Tiong Ohang, ultimo villaggio civilizzato dove solitamente si vanno a ingaggiare i portatori dayak di etnia Penihing che si occuperanno di fare da guida lungo il percorso nella giungla, trasportando anche le scorte di cibo e il materiale necessario alla predisposizione del campo mobile. Mediamente viene considerato un portatore per ogni viaggiatore occidentale, per garantire uguale capacità di trasporto dei carichi nel caso qualche partecipante alla spedizione non possa provvedere con le proprie spalle a causa di infortuni, mancanza di forze o passaggi particolarmente pericolosi.
Il percorso si snoda in una giungla incontaminata e ancora popolata da vegetazione maestosa, lungo il tracciato utilizzato dai locali per tenere i collegamenti tra le vallate sui fronti opposti della catena Muller, popolata da montagne di altezza tra i 900 e 2000m. Il sentiero attraversa continui saliscendi collinari o il greto dei fiumi e viene aperto di volta in volta dalle guide dayak in funzione della loro esperienza, dello stato dei corsi d'acqua, dei guadi, delle condizioni atmosferiche o delle condizioni di forma dei partecipanti, risultando così raramente simile a uno già seguito in precedenza. La marcia sul terreno schiacciati dallo zaino, dalla sete e dal clima afoso è resa ancor più difficoltosa dal pericolo di caduta a causa del terreno dissestato o di passaggi su rocce costantemente scivolose, vero flagello che implica di prestare attenzione a ogni singolo passo per circa 100 km di cammino, fino al primo villaggio raggiungibile da un'imbarcazione che colleghi il fiume Kapuas alla cittadina di Putussibau.
È un continuo camminare facendosi strada nella foresta, aprendosi la via a colpi di parang (machete tipico indonesiano), arrampicandosi su scoscesi crinali aggrappati a radici, liane o vegetazione irta di spine, attraversando guadi innumerevoli con acqua che arriva fino alla vita o nei casi peggiori al petto, in un ambiente dove è necessario scordarsi il concetto di asciutto finché non se ne è usciti. La linea di confine tra il Kalimantan Barat e Timur passa nel punto più alto del cammino per il "Passo degli spiriti", dove i dayak sono soliti abbandonare oggetti personali per procurarsi la benevolenza delle raffigurazioni soprannaturali dei fiumi Mahakam e Kapuas, che qui hanno origine in una foresta ancora lussureggiante a 950m slm. In epoche passate i dayak erano soliti costruire a fine giornata una capanna sopraelevata chiamata pandok, utilizzando legname e vegetazione recuperata sul posto, mentre oggi provvedono issando un telone in plastica che funge da tetto accoppiato ad altro ad uso pavimento, delle dimensioni adatte a ricoverare tutti i componenti della spedizione e che funge da perimetro di sicurezza oltre al quale la foresta si popola di inquietanti rumori e fruscii al calare del buio.
La giungla dimostra di essere animata proprio nelle ore notturne, contrariamente a quelle diurne durante le quali i mammiferi tendono a fuggire, mantenendosi a buona distanza dalla comitiva che si muove rumorosa. I volatili, attirati anche dalla presenza più abbondante di cibo, semplicemente rimangono nascosti nelle parti alte della vegetazione dove si apre una rete di rami dai 30 ai 70 metri di altezza che formano un ombrello vegetale composto da mille sfumature di verde, che per giorni interi impedisce di percepire il colore del cielo. Assieme a legioni di formiche e scolopendre, le sanguisughe sono le uniche forme di vita la cui presenza, di giorno e di notte, è sempre costante e fastidiosa, attirate dal calore corporeo e sempre pronte a lasciare molteplici segni della loro azione. Anche i rettili pericolosi come il gigantesco cobra reale o il letale bungaro tendono ad essere schivi, avendo imparato a loro spese che in caso di incontro sarebbero i dayak a rincorrerli, con l'obiettivo di trasformarli in appetitosi spiedini che risolverebbero il problema del cibo per molti giorni successivi.
Le scorte di riso trasportate dai portatori vanno integrate quotidianamente con pesce pescato al momento o con carne di cinghiale selvatico e, per quanto in un primo tempo il menù possa risultare esotico, alla lunga finisce per essere assimilato più per necessità che per appetito. Per idratarsi è necessario utilizzare depuratori portatili e, nonostante ci si muova in una giungla così ricca di fiumi e che raccoglie piogge durante tutto il corso dell'anno, anche i dayak, dotati di potentissimi anticorpi alieni a noi occidentali, scelgono le fonti di acqua ritenuta potabile con cura, per prevenire problemi intestinali. Durante il giorno e la notte poderosi scrosci monsonici vanno a formare un muro di pioggia che, oltre a limitare la velocità del cammino, riduce ulteriormente la visibilità, già di per sé estesa a solo pochi metri ai lati del sentiero, oltre il quale la coltre di vegetale impedisce l'esplorazione anche solo visiva.
I temporali sono accompagnati solitamente dal rumore dall'impatto devastante di qualche albero d'alto fusto che rovina sulla vegetazione secondaria, caduto sotto l'azione del vento: la presenza costante di acqua nel terreno ha suggerito alla natura di dotare questi giganti di radici ridotte, non avendo necessità di affondarsi negli strati bassi del terreno alla ricerca di nutrienti, ma minandone la stabilità. In un ambiente così problematico una qualsiasi forma di grave infortunio diventa potenzialmente letale, essendo l'ombrello verde troppo fitto per tentare un'evacuazione elitrasportata anche una volta lanciata una richiesta di soccorso satellitare, come dimostrato dalla presenza di lapidi di escursionisti che non sono mai riusciti a lasciare la giungla.
Il premio per chi riesce a convivere con queste molteplici problematiche è la possibilità di ammirare una vegetazione ancora rigogliosa e dalle dimensioni talvolta monumentali, come doveva essere presente in tutta l'isola del Borneo prima che lo sfruttamento del legname e delle risorse minerarie procurassero una deforestazione scellerata. Il Muller trek è dunque il vero ritorno alle origini in ambiente incontaminato ma talvolta ostile, adatto solo ad esploratori disposti a confrontarsi con un paradiso di natura nascosto in un inferno di giungla.