Con la sua tavolozza zeppa di colori "inganna" la natura carpendone le metamorfosi per poi restituirci le atmosfere più effimere, gli attimi di luce insieme all'intensità delle ombre. Quasi un patto col tempo che fugge, ma che lui, come un abile prestigiatore, coglie all'istante con la velocità dell'occhio e del suo pennello.
Sempre en plain air, in campagna, sui fiumi, davanti al mare. D'altronde anche il piccolo e indisciplinato Monet era innamorato della natura e trascorreva ore sulle scogliere di Le Havre, dove abitava con i genitori, anziché andare a scuola, che invece sentiva come una prigione e dove, quando costretto, passava buona parte del tempo a disegnare caricature. I dipinti che sarebbero usciti dalle mani di quel ragazzo, un po' cocciuto e un po' vagabondo, non solo hanno aperto la strada dell'arte moderna, ma sono anche e semplicemente una gioia per gli occhi di tutti noi postmoderni, troppo spesso ossessionati, più che dall'arte, dall'arte dello stupire.
Non a caso la Fondazione Beyeler per celebrare il suo ventesimo anno di vita ha scelto proprio le immagini che Claude Monet ci ha lasciato allestendo una mostra di 62 opere di cui 15 provenienti da collezioni private, da sempre lontane dagli occhi del pubblico. Luci, ombre e riflessi sono i temi del percorso dell'esposizione curata da Ulf Kuster, aperta fino al 28 maggio, che si concentra negli anni successivi al 1880, quando, abbandonata la rappresentazione della figura, il pittore si dedicò interamente al paesaggio; anni in cui la ricerca della luce e dei suoi riflessi per lui era diventata spasmodica, quasi furiosa.
Perché Monet testardo lo era parecchio e mai si sarebbe dato per vinto. "Inseguo un sogno. Voglio l'impossibile", diceva. Lui stesso racconta di un giorno in cui dipingeva alcune macine nella campagna vicino a Giverny mentre sole e nubi creavano nuove atmosfere. Preso dall'ansia di non poter catturare quegli effetti, chiese alla nuora di andare a casa a prendere una nuova tela e quando arrivò riprese a dipingere lo stesso soggetto, ma con la diversa luce. Poco dopo, però, inseguendo tutte le sfumature, si trovò costretto a chiederne un'altra e poi un'altra ancora, così da poter lavorare a ciascuna di esse solo quando c'era l'effetto giusto.
Siamo nel 1890 e Monet ha appena inventato la pittura "in serie", quasi come si trattasse di istantanee fotografiche. Lui, pioniere della moderna arte e uomo immerso nei suoi tempi che videro 5 anni dopo, proprio in Francia, l'invenzione del proiettore e del cinematografo dei fratelli Lumiere. I pagliai, i papaveri, i pioppi, la cattedrale di Rouen, la Senna, la costa della Normandia e le sue scogliere, i ponti e il Parlamento di Londra diventarono forme pronte a dissolversi nei colori, solo pretesti per imprigionare quelle sfumature dell'alba e del tramonto, dei bagliori e delle ombre che erano insieme estasi e ossessione. Monet piazzava quattro o più cavalletti e vibrava le sue pennellate su ognuno, di volta in volta che la luce cambiava: aveva calcolato, ad esempio, che in alcuni momenti dell'anno ci volevano circa sette minuti perché il sole si spostasse da un punto di riferimento, mutando gli sprazzi di chiarore o di oscurità.
L'esposizione della Fondazione Beyeler ci trasporta con l'artista in molti dei suoi viaggi alla ricerca di emozioni. Siamo a Pourville, un villaggio di pescatori vicino a Dieppe, in Normandia: le scogliere si tingono di rosa e si riflettono nell'acqua immobile della bassa marea, oppure diventano scure e quasi minacciose all'arrivo di nubi che propagano la loro ombra nel mare diventato opaco. All'alba l'atmosfera diventa sfumata, quasi evanescente, idilliaca. Spostiamoci sulla Senna, uno dei luoghi che più hanno incantato Monet. È qui, su questo fiume, che aveva ancorato un battello allestendovi il suo studio galleggiante, così da potersi impadronire dei riflessi dell'acqua durante il passare delle stagioni. Arrivava prima del sorgere del sole, slegava la sua barchetta ormeggiata tra le canne e raggiungeva lo studio galleggiante.
In mostra troviamo due Matinée sur la Seine, capolavori tra i capolavori, dove i confini tra acqua, cielo e terra si confondono nei toni del rosa e del violetto. Non è solo il giorno che prende il posto della notte, è la forma che diventa impressione. Altre "impressioni" quelle di una inondazione a Giverny, come anche lo stagliarsi di una fila di pioppi sulle sponde di un fiume. Peupliers sur le bords de l'Epte è il titolo. La mostra confronta tre di questi dipinti, con gli alberi visti da angolazioni diverse e in diversi momenti atmosferici. Proprio questi pioppi diventarono per l'artista una fonte di preoccupazione: aveva già cominciato a dipingerli quando seppe che erano stati venduti e stavano per abbatterli. Fu allora che propose un "affitto" al compratore perché li tagliasse solo quando lui aveva finito il lavoro. E così fu.
Dai Paysage de Printemps a La cabane du Douanier fino al Tamigi e ai Charing Cross e Waterloo Bridge, si sono moltiplicate nel tempo le sue realtà trasformate in impressioni che hanno aperto le porte a una nuova arte. Un difficile cammino quello dell'Impressionismo, contrastato da reazioni ostili, qualche volta anche sarcastiche, rallentato da radicate tradizioni e da vecchie accademie. Se molti furono gli artisti costretti per questo a una vita miserabile, Monet non fu da meno. Eppure niente delle sue condizioni, né delle emozioni private, sembra trasparire nelle opere. Non i cattivi rapporti col padre; non la povertà oltraggiosa che lo costrinse ad andare a vivere con moglie e figli nella casa di un collezionista, Ernst Hoschedé, anche lui poi ridotto in povertà; né la morte della giovane moglie Camille ad appena un anno dalla nascita del secondogenito.
Nemmeno la passione tra Monet e Alice, moglie di Hoschedé e madre di sei figli, ha lasciato segni evidenti nei dipinti; Alice che diventerà la sua compagna "clandestina" fino alle nozze del 1892, poco dopo la morte del marito. Neanche l'incipiente cecità ci è nota attraverso il suo pennello. Eppure quel panorama fatto di acque e di ninfee cominciò pian piano a non essere più chiaro ai suoi occhi così attenti. Dopo un periodo di angoscia, un nuovo miracolo, perché l'illusionista era ormai così abile da compiere i suoi incantesimi anche senza vedere. "Se ho riguadagnato il mio senso del colore nelle grandi tele è perché ho adattato i miei metodi di lavoro alla mia vista e perché ho quasi sempre buttato giù i colori a caso", spiegava Monet a un amico, "da un lato fidandomi unicamente delle etichette sui tubetti e dall'altro seguendo la forza dell'abitudine, facendo affidamento sul modo in cui ho sempre steso le tinte sulla mia tavolozza".
La mostra di Basilea dedica alle ninfee una sezione composta sia da dipinti provenienti da collezioni private, sia da altri acquistati da Ernst Beyeler per la sua galleria e mai venduti perché lo stesso mercate non riusciva più a separarsene. Sono stati l'ultima illusione che Monet ci ha regalato, forse la più suggestiva e per questo la più magica.