Momusso, nome d’arte di Martina Lorusso, è un’artista in bilico tra disegno e grafica che ha fatto dell’immaginario onirico il suo cavallo di battaglia, sostanza malinconica di tutte le sue opere. È del 2010 un incontro che ha cambiato radicalmente il modo di percepire il suo lavoro. Abbiamo avuto il piacere di farci raccontare questo e molto altro in un’intervista dalle molte emozioni svelate.
Martina, puoi raccontarci dei tuoi inizi "non sapendo assolutamente disegnare", come dici tu?
“Non sapendo assolutamente disegnare”. Una frase che mi ripeto spesso. Non mi ha mai preoccupato il fatto di non saper fare. Era l’inverno del 2013 quando iniziai. Era finito un amore importante. Ci sono voluti due anni, tutti in salita, ma alla fine sono riuscita a trasformare in lavoro uno stato d’animo. La malinconia appare sempre nei miei lavori. È importante ricordare. L’amore o la mancanza di esso, mi ha sempre motivata nella ricerca della felicità. In questa ricerca si trovano le risposte, ci si impara a conoscere e a volersi bene. L’illustrazione e la grafica sono state la mia cura. Lo sono tutt’ora. Non mi vergogno mai di raccontare quanto allora sia stata male; quanto mi sentissi sola e quanto lavoro ho dovuto fare per ricostruire. Siamo tutti dei supereroi in fondo: dobbiamo solo trovare e saper usare i nostri poteri per sconfiggere il male.
Puoi dirci in che modo l’incontro con Nini Mulas ti ha aiutata a trovare la tua strada?
Nini era una persona eccezionale, unica direi. La fotografia è stata il mio primo amore. Ricordo ancora il preciso momento che decisi che il Latino per me era una lingua morta. Rimandata sempre. Estati passate a studiare. Quel giorno ero immersa in una traduzione. Mi trovavo a Ostuni, dai miei nonni. Fuori si respirava l'odore dei fiori del giardino. La luce calda del tardo pomeriggio. Nonno era intento ad annaffiare l'orto. Senza pensarci due volte presi la fotocamera e iniziai con difficoltà a fotografare una farfalla. Avevo assecondato e dato sfogo a una passione nell'istante preciso che la provai. Iniziai a fotografare di tutto. Amavo i volti segnati dal tempo e la luce che li incide. Nini mi ha insegnato l'importanza delle cose e con esse del passato. Andai a ordinare l'archivio di Ugo Mulas a Todi. Nini si era da qualche anno trasferita in Umbria. Aveva seguito la sua amica Giuliana Soprani Dorazio, la moglie di Piero, il padre dell’astrattismo italiano. Mi ricordo centinaia di cassette con interviste registrate ai più grandi personaggi della sua epoca: da Gianni Agnelli a Umberto Eco. Ricordo le lastre con le fotografie originali, e ricordo quella polvere che fermava il tempo. La sua casa sulla piazza principale di Todi era un’esposizione d’arte. Tutti i nomi più illustri del Novecento, partendo dal dopoguerra. Imparai a conoscerla. A volerle bene. Mi parlava dei suoi grandi amici: Fontana, Pistoletto, Arnaldo Pomodoro; e del suo amico Dario Fo. Era l'estate del 2011. Nini era una grande donna, forte, generosa e irriverente. Di quelle persone che ti cambiano qualcosa dentro. Mi ha aiutata a cercare sempre la motivazione. A non cercarla negli altri.
Tu hai lavorato per artisti ed eventi molto diversi. Come collabori con realtà differenti per raggiungere il risultato finale?
Cerco di conoscere chi ho davanti. Cerco di istaurare un rapporto di fiducia con il cliente. È stato così con Niccolò Fabi, ad esempio. Devo progettare un’idea e per me è dunque indispensabile conoscere i suoi gusti, quello che pensa e quello che vorrebbe da un mio lavoro. Mi faccio raccontare il suo progetto, così da immaginarmelo. L'importante è riuscire a formulare la comunicazione seguendo le esigenze del cliente e questo occorre farlo cercando di studiare tutto il suo universo. Mi piace variare, mi spinge a superare i miei limiti.
Nei tuoi lavori la dimensione onirica è fondamentale. In che parte è voluto e in che parte è casuale?
Alcune illustrazioni rappresentano un sogno che ho fatto. Ma preferisco non dire quale. Mi sono appassionata ai sogni lucidi da qualche anno. Sto approfondendo i miei studi con libri ed esercizi quotidiani. Coltivo sempre quella parte di me più creativa e proprio per questo meno regolabile e controllabile. Mi immagino le cose. Il mio immaginario è fatto così: vive in modo indipendente, con i suoi colori e le sue forme. L'esperienza nel sogno mi aiuta ad entrare in contatto con le paure e le emozioni più recondite. Diciamo che sono affascinata dall'approccio che hanno i bambini con le cose che vedono per la prima volta. Le toccano, le girano, le annusano e le mordono. Sto cercando di non far spegnere in me la capacità di sorprendermi. E attraverso la mia sfera onirica e il disegno riesco a farlo. Sono sempre affascinata da ciò che non si vede.
So che la musica è una delle tue più fedeli compagne di viaggio. Ritieni che entri – sempre – a far parte della tua arte?
Ascolto musica da quando mi sveglio. Mi lascio accompagnare dalle mie playlist che scandiscono i miei umori e il mio tempo. Il mio cartone preferito da piccina era Fantasia della Disney e credo che mi abbia condizionata moltissimo. Forme e colori che mutano a seconda della nota che si ascolta. L'immaginazione ha un ritmo. Diverso ogni giorno. Il nostro umore ha un ritmo. Anche la nostra felicità ha un ritmo. La musica mi asseconda. Posso dire di avere una canzone per ogni illustrazione fatta.
E, in futuro, cosa ci dobbiamo aspettare da Momusso?
Si chiama Vocabolario Sentimentale. Creo nuovi idiomi che vanno a specificare sensazioni e sentimenti che proviamo in un momento preciso. Oltre a far questo, illustro un oggetto che non esiste o che si confonde con altro associandolo alla parola. Cinque mesi fa avevo l'esigenza di trovare delle parole, nuove parole, che riuscissero a spiegare a qualcun altro cosa stessi vivendo. Anche questa volta per un amore finito. Ci avrò mica preso gusto? Questa volta le parole mancavano a lui e questa mancanza ricadde su di me. Ci vuole coraggio nel pronunciare determinate parole. Il coraggio di provare un certo tipo di emozioni e viverle fino in fondo per conoscerle e gestirle. È una capacità che cerco di sviluppare proprio attraverso il vuoto che si crea da queste assenze. È il desiderio forse di diventare matura sentimentalmente. Tutti noi abbiamo il bisogno di farci capire. Sento il bisogno di indagare su quei particolari sentimenti che provo durante la giornata e che spesso si confonde come pura sensazione e, proprio per questo, messa da parte. Volevo trovare un nome e un'immagine all'amore che non se ne va. Ecco allora “amoràncora”, che potrebbe anche essere “amoreancòra”. Una parola abbinata alla paura della partenza: “valigone”; al dolore del trasloco, “traslore”. La malinconia per un amore finito si traduce in “malincospazio”. Ho innescato involontariamente un moto di empatia. Mi sono arrivate tantissime parole nuove o solo sentimenti che non avevano un nome o una forma. Il progetto che ho in mente ha ancora bisogno di qualche mese. Ci sto lavorando! Il mio si potrebbe definire come un “cantiersogno” in continua evoluzione.