Simarght fa parte a pieno titolo di un nuovo fermento che, da qualche anno, ha riacceso la città di Torino. Fermento artistico che lei ha deciso di immortalare da un’ottica affascinante e del tutto personale. Abbiamo avuto modo di scambiare quattro chiacchiere subito dopo la vittoria del premio Meet McCurry Forte di Bard e la recente esposizione all’EXYT – Expose Your Talent, di Milano.
"Vedo ciò che vedo. Vedilo con me" è il tuo motto. Naturale chiederti quanto conta la condivisione con l’utente finale dei tuoi scatti, al momento di decidere cosa immortalare.
Quando scatto catturo chi o cosa ho davanti pensando molto poco. Mi affido a inquadrature spontanee. In quei momenti quello che vedo è quello che voglio vedere. Non sento la necessità di cercare o creare altro. È solo successivamente, nella scelta di quali foto pubblicare, che mi trovo a valutare in quale misura certi scatti sanno meglio mostrare, e dimostrare, ciò che ho visto e percepito. Mi domando: "Si vede oggi ciò che ho visto ieri?" più che: "Cosa vorrà vedere chi vedrà questa foto domani?". È, a grandi linee, lo stesso principio che sta alla base delle opere di fotogiornalismo: raccontare ciò che si è visto e come lo si è visto, chiaramente da un punto di vista ben preciso. Alla stessa maniera io riporto, restituisco e, soprattutto, scelgo. In questo processo faccio a meno di tutta quella collezione di pressioni legate all'ambiguità o al fraintendimento, che invece sento molto forti in altri contesti comunicativi. Come diceva Elliott Erwitt "il punto fondamentale è scattare la foto in modo che poi non ci sia bisogno di spiegarla con le parole".
Recentemente ti sei occupata di eventi di tipo molto diverso: dal concerto al festival alle passerelle di moda. Cosa cambia, sostanzialmente, nel tuo approccio quando rivolgi il tuo obiettivo verso questa o quella dimensione?
La differenza è davvero minima. Cambiano gli spazi e le luci, sempre fondamentali, ma il mio approccio rimane tuttavia lo stesso, proprio perché la mia visione è sempre la stessa. Dopo uno sguardo esplorativo, sono io che inizio ad adattarmi alle circostanze rispettando i movimenti, e soprattutto i tempi, di chi o cosa mi è davanti. Spesso trovo l'immagine per intuizione in pochi secondi e la fermo istantaneamente, mentre, altre volte, a seconda del contesto, sono costretta all'attesa per riuscire a catturare quella che sento più giusta. La pazienza è una cosa che ho dovuto imparare anche qui. Capita, poi, che una sola fotografia colpisca di più e sia maggiormente funzionale all'uso dei social, ciononostante è importante anche la costruzione di un racconto, quindi la cura di relative strutture e contenuti. Cerco di offrire entrambe, ma non è sempre possibile o utile.
Quali sono stati i primi scatti che ti hanno fatta di decidere di intraprendere la strada della fotografia?
Non sono stati scatti miei. Sono stati gli scatti che ho visto negli album di famiglia a casa di un'amica. Io non ne avevo così tanti. Non avevo nemmeno un album intero, solo qualche foto persa nei cassetti. Mi sono detta che forse era compito mio scattarne di più, ricordare di più. Alla comunione il regalo più bello è stata una polaroid lilla finita subito in mano ai cugini grandi. Su dieci istantanee disponibili me ne era rimasta forse solo una. Dalle medie una macchina compatta ma di buona qualità mi ha accompagnata fino agli anni del liceo, immortalando ricordi ancora da "sviluppare" del tutto. Qualche tempo dopo la prima reflex ha permesso anche a me di sperimentare, crescendo in un periodo in cui si definiva sempre più chiaramente la strada della fotografia. La necessità di fermare per ricordare c'è sempre stata, ma più forte era la consapevolezza di essere la sola a poterlo fare in un certo modo e secondo un determinato linguaggio. È tuttora così, dal momento che la tendenza all'impeccabilità viaggia per me di pari passo con un'intensa autocritica.
Quale pensi sia il leitmotiv che accomuna le tue immagini? C’è un filo conduttore che desideri sia evidente, quando ti trovi a editare le immagini scattate?
Ci sono i dettagli. Ci sono spesso mani, anelli, scarpe, pieghe di un vestito, porzioni di un viso o di uno strumento musicale. Si tratta di una ricerca del particolare continua, istintiva, a tratti selvaggia. Il dettaglio è come una preda nascosta, ma pur sempre sotto ai tuoi occhi. Ultimamente mi trovo a utilizzare un'attrezzatura, tra lenti e corpo macchina, che mi permette di essere molto vicina al soggetto da scattare. Questo è di grande aiuto, perché si allinea perfettamente con il mio modo quotidiano e personale di osservare: da vicino, ma con dovuta discrezione.
Ci racconti qualche progetto futuro?
Sto lavorando a un progetto di ritratti fotografici negli spazi dove la musica nasce e cresce: principalmente studi di registrazione e sale prova. La città dove vivo ha favorito la creazione di numerosi legami in questo senso. Per l'anno nuovo ho in programma diversi live e collaborazioni, oltre a nuove idee da implementare.