Maternity Blues è un toccante film di Fabrizio Cattani, tratto dal dramma teatrale From Medea di Grazia Verasani. Il dolce suono del titolo, Maternity blues, riecheggia come una musica carezzevole, risuona come se fosse un nostalgico pezzo di jazz, in realtà adombra uno stato d’animo depressivo che come una nebbia penetrante, a volte, avvolge molte madri subito dopo il parto.
È la storia di quattro donne, molto diverse tra di loro per carattere, esperienze di vita, stile relazionale, sono donne qualsiasi, donne di tutti giorni anche se appartenenti a contesti diversi, ma accomunate da una terribile colpa: aver ucciso il proprio figlio. Le incontriamo all’interno di un ospedale psichiatrico giudiziario dove espiano la condanna che la società ha loro inferto, ma non riescono a darsi pace per la condanna interiore, molto più severa e congelante, e ognuna di loro vive ed esprime questo tormento lacerante che le rende mostri ai propri occhi e agli occhi degli altri. Dall’esperienza di questa drammatica e obbligata convivenza sbocciano legami amicali e/o altamente conflittuali, confessioni abbozzate, scambi che non sempre generano sollievo, anzi, alcune volte diventano specchi terrificanti che rimandano immagini di sé intollerabili.
I loro nomi sono Clara, Rina, Eloisa, Vincenza, quattro persone, quattro storie, quattro sofferenze acutissime e sorde, quattro “normalità” che, a un certo punto della vita, hanno deragliato perché è stato impossibile stare nei binari, uno scossone nella mente e nel corpo le ha scaraventate fuori dai parametri della logica, una lava bollente e appiccicosa le ha invase, ricoperte, annebbiate, fagocitate.
Clara non riesce ad accettare il perdono del marito e sconta la fatica di una vita condotta in un’apparente normalità; Rina, ragazza-madre ha affogato la figlia nella vasca da bagno in una sorta di eutanasia; Eloisa, la polemica e passionale, nasconde la disperazione in un cinismo solo di facciata; Vincenza, la pacata, la rassegnata, nonostante la fede religiosa non reggerà più e si toglierà definitivamente dal tormento che l’ha già assassinata. “E ora l’altra vita. Quella senza sbagli” (Lou Lipsitz).
Sono accomunate anche da una solitudine immobilizzante nel loro cimentarsi a fare le madri, è mancato loro quell’appoggio che le aiutasse a superare i tratti depressivi e a riconoscere i sentimenti di ambivalenza che ogni figlio inevitabilmente suscita, lasciandole anche sole a far fronte al falso mito dell’amore materno assoluto. Il tema della madre assassina non è nuovo, compare nella classicità e non ha mai smesso di scandalizzarci, ma sia la Verasani che Cattani lo trattano con discrezione, rispetto, cercando di identificarsi con lo stato d’animo di una madre che la spinge a un’azione tanto estrema. Il palcoscenico, che accoglie i frammenti di queste donne a cui tenta di dare parola ed espressione, assomiglia di più a una terapia di gruppo che a un tribunale giustizialista. E alla fine non può che rimanere insaturo il gesto della passione incontenibile che pervade queste novelle Medee.
Il mito di Medea, come sempre tutti i miti, ci aiuta a capire come ogni donna deve fare i conti con i sentimenti negativi che può provare verso i suoi figli, pensieri che possono essere sentiti come intollerabili, inaccettabili. Nel film di Pasolini, Medea, c’è una scena toccante, l’inquadratura focalizza lo sguardo della donna che si magnetizza su un coltello mentre sta cullando il suo bambino, in quel momento si assiste alla formazione di un pensiero terrificante, che una volta pensato, non può più essere dimenticato, ma si incolla lì, inesorabile, continuando a inquinare e tormentare la mente.
“Tieni lontano il più possibile i figli, non lasciarli avvicinare alla madre. L’ho già vista mentre li guardava con occhio feroce, come se avesse in mente qualcosa”, ammonisce Euripide, avendo intuito che il mito dell’amore materno nascondeva insidie, probabilmente aveva intravisto la possibilità di assassinii reali, ma forse aveva intuito più raffinatamente anche quelli dell’anima, assassiniI causati da un congelamento emotivo materno o perfino da un eccesso di amore, amore esclusivo, fagocitante, soffocante, come per esempio si ritrova nell’altro bel film, Hungry Hearts, dove l’inclusività e il possesso estremo del figlio giunge quasi a una reinfetazione protettiva, spingendosi fino al suo annientamento.
Nella psiche umana l’odio compare con la scoperta dell’altro in quanto, non essendo parte di sé, non è sempre a nostra disposizione, quindi genera, in modo del tutto naturale, anche se non facilmente riconosciuto, questo sentimento negativo. È già difficile digerire una questione così ostica, preferiamo sentirci buoni, ma è ancora più impensabile se l’odio riguarda il rapporto tra genitori e figli. Eppure la mitologia ci insegna che le cose stanno proprio cosi, non solo Medea, ma anche Agamennone, Clitennestra, Laio hanno ucciso o voluto uccidere i loro figli.
I miti costituiscono la metafora dei nostri sentimenti più profondi, li raffigurano, sono come l’espressione di un sogno collettivo, ci riguarda tutti. È difficile affrontare questo argomento, inconsciamente sottoposto a censura, perché costituisce un pensiero terribile, inaccettabile, è un dissacrare la sacralità del materno, è un macchiare il dogma dell’unico amore sicuro, è conferire diabolicità a un’immagine di santità.
Ma cosa succede alle origini di quella relazione ineffabile che lega una madre al suo bambino? Alla nascita fisiologica del bambino corrisponde la nascita psicologica della madre che ha il delicato compito di creare nella propria mente uno spazio per il suo bambino, proprio come durante la gravidanza gli aveva offerto uno spazio all’interno del suo corpo. La maternità, dunque, costituisce un impatto sulla donna come momento di vita che richiede necessari cambiamenti di stato, da figlia diventa madre, si tratta di un nuovo assetto della sua identità individuale, rappresenta un cambiamento “catastrofico”, non facile da digerire se non c’è un’altra mente, quella della propria madre o del marito, che può supportarla e allora la catastrofe si trasforma in salvezza, diventa una situazione gioiosa, fiduciosa, portatrice di novità appaganti, di vitalità.
Nelle società tribali esiste la figura delle co-madri che fungono da supporto psicofisico alla puerpera, non è lasciata sola in balia di questo nuovo stato così difficile da gestire senza il contenimento di un grembo sociale. È col sentimento di sentirsi contenuta cha la giovane madre può integrare il vissuto di separazione dal nascituro, nonché la disillusione del confronto tra il bambino immaginato e quello reale, insieme alle fatiche dell’accudimento. Se nella giovane madre è stata carente l’identificazione con una sufficientemente buona immagine materna, si possono verificare estreme fragilità, irritazione, intolleranza che possono anche esitare in un quadro depressivo.
Si verifica allora quell’oscuro malessere che la fa sentire infelice, triste, inadeguata, fallimentare, incapace, provando vergogna per questo vissuto di sé così degradante e può anche arrivare a un dolore tale da doversi ritirare come in un guscio protettivo, non riuscendo a sopportare il bambino, i suoi pianti, i suoi bisogni, tanto da non volerlo neanche più vedere, da diventare apatica, insonne, inappetente, fissata in una staticità mortifera.
Anche l’aspetto fisico del bambino, le sue competenze relazionali deficitarie, o suoi difetti che lo rendono imperfetto possono incidere sulla perdita delle risorse della madre causando frustrazione, rabbia e sofferenza depressiva. È difficile per una madre riconoscere conflitti ed eventuali sentimenti di aggressività verso il proprio figlio o anche verso se stessa proprio in quanto generatrice. Eppure la psicoanalisi sostiene che i bambini sono anche odiati dai loro genitori anche se le nostre difese ne evitano la consapevolezza, ma anche i bambini odiano i loro genitori, lo testimoniano i rifiuti, i pianti, gli sguardi truci, omicidi, quando non si sentono totalmente amati. La psicoanalista inglese Melanie Klein sostiene che “è un’idea terrificante per non dire incredibile per la nostra mentalità, quella di un bambino dai sei ai dodici mesi, che tenti di distruggere la madre con tutti i mezzi che le sue tendenze sadiche gli mettono a disposizione, con i denti, le unghie, gli escrementi e con tutto il proprio corpo trasformato fantasticamente in ogni sorta di armi letali. Io, per personale esperienza, so quanto sia difficile ammettere che tali idee ripugnanti corrispondono a verità”.
Una donna che nutre pensieri e sentimenti aggressivi per il figlio annaspa in un’immensa solitudine e chiede di essere ascoltata, capita, aiutata. È importante riconoscere che la natura umana è impastata naturalmente di odio e amore, per cui non avendo pretenziosità di perfezione, di buonismo assoluto, di generosità illimitata, ma accettando il limite della nostra umanità, fatta di buono e di cattivo, si potrà evitare di compiere atti delinquenziali, perché, come in uno spartito musicale, c’è la consapevolezza che si può alternare il tempo dell’odio col tempo dell’amore.
È utile parlarne proprio per togliere quell’alone di idealità che genera di conseguenza mostruosità, perché quando una questione anche scabrosa è pensabile e parlabile diventa automaticamente contenuta e perciò meno terrificante e spaventosa per la mente. Patire, pensare, riconoscere e condividere i sentimenti negativi, li depotenzia della loro forza distruttiva, si possono cioè incontrare senza sentirsi affranti o accecati da essere in loro balia, e non essere costretti a concretizzarli in agiti drammaticamente irreversibili. È utile accedere alle proprie componenti sadiche poiché riconoscere il proprio odio ridimensiona il sentimento di sé idealizzato e il sollievo del sentirsi capiti e contenuti permette di gestire le turbolenze emotive così da per poter metabolizzare l’odio e regolare i propri stati emotivi deflagranti.
Clara, Eloisa, Rina e Vincenza non sono solo quattro donne spezzate, non rappresentano esclusivamente quattro storie stonate rispetto a un idealizzato complesso armonico dell’umanità, ma la loro tragedia, come raccontano i tragici greci, fa parte di tutti noi, le quattro donne costituiscono, non solo le parti frammentate di un intero, ma stanno a raffigurare la donna nella sua straordinaria, terribile, umanità.