Secondo me la vera donna è colei che salva il mondo, che possiede le chiavi della vita e attraverso la quale si manifesta la nobile e potente forza dell’amore (…). La società contemporanea, come tutto ciò che essa comporta, è dipesa in particolar modo da questa donna umiliata. Allora, quale dovrebbe essere il fine a cui devono mirare la società contemporanea e gli Stati contemporanei? È quello di elevare la donna. Elevate la donna al rango che occupava prima! Mettetela al livello in cui era all’origine e vedrete che in 25 anni il mondo migliorerà. La salvezza del mondo è nell’elevazione della donna. Se non elevate la donna, o se lei non eleva se stessa, non si avrà la salvezza.
Sono le parole che Peter Deunov (1864-1944), grande maestro spirituale contemporaneo di origine bulgara, ha scritto anni fa in un documento titolato La donna della nuova cultura. A suo avviso l’umanità ha dimenticato quale sia il profondo valore e il vero ruolo della donna. E auspica di ritrovare quel valore per restituire alla donna il ruolo che questa merita anche nella società contemporanea. Ma a quale ruolo si riferisce Deunov?
Per rispondere a questa domanda bisogna intraprendere un viaggio a ritroso. Bisogna andare molto lontano, indietro almeno di trentacinquemila anni, in un’epoca in cui la donna era considerata sacra. E in cui esisteva una vera e propria deità femminile. Qualcosa di infinitamente remoto per noi, cresciuti e nutriti da religioni in cui il divino è assolutamente maschile. Dio è Dio. È già nel sostantivo, virile. Eppure c’è stato un tempo in cui tutta l’energia creatrice era percepita in grembo a una Dea. Forse è questa la consapevolezza che, nei secoli, le grandi donne della storia, quelle che sono riuscite a emergere e a restare nella memoria, hanno avuto. La certezza che essere donne fosse di per sé “potente”, che avesse in sé qualcosa di assolutamente sacro, anche se minimizzato dal contesto patriarcale.
Per gli uomini del Paleolitico Superiore la donna era una creatura divina. Era colei che miracolosamente generava la vita ed era associata alla stessa Madre Terra. Per questa ragione veniva scolpita come una dea antropomorfa. Opulenta e steatopigia. Raffigurata in forme floride, morbide e straripanti. Seni abbondanti, ventre gravido. Cosce ovoidali e vulva rigonfia. Le zone del corpo legate alla maternità erano così ben evidenziate e il loro valore simbolico risultava inequivocabile. I piedi e le braccia, però, svanivano del tutto e vi era una sorta di interdizione anche a raffigurarne il volto, il più delle volte coperto da decorazioni o sostituito da un foro apicale. Erano dee e al contempo amuleti propiziatori. Dovevano auspicare fecondità e fertilità e tale auspicio era ben reso dalle deformità descritte.
Il solo caso di “venere preistorica” cui è stato scolpito il viso è quello della Venere di Brassenpouy, che porta il nome della località francese ove fu scoperta nel 1892. Per la precisione questa scultura, risalente al 25.000 a.C, fu rinvenuta presso La Grotte du Pape assieme a diversi altri frammenti di statuette femminili. Ma quel che di lei resta è soltanto la testa. Lunga circa 3 centimetri e mezzo, è stata realizzata in avorio di mammuth e pare essere il primo esemplare di volto umano con capigliatura mai scolpito nella storia. Di forma triangolare, questo viso è privo di bocca, mentre naso e sopracciglia sono state scolpite in rilievo. La capigliatura, invece, è una sorta di caschetto inciso a scacchiera. Pare quasi un cappuccio. E per questa ragione i francesi l’hanno soprannominata “La dame à la capuche”.
Ma se questa scultura può risultare meno nota ai non addetti ai lavori, quella che mi accingo a descrivere risulterà sicuramente più riconoscibile. Ricorderete tutti, o quasi, la Venere Preistorica più celebre della storia dell’arte, quella pubblicata su tutti i manuali scolastici e che fu rinvenuta dagli archeologi in Bassa Austria nel 1909. Approssimativamente coeva alla precedente (24.000 – 22.000 a.C) la Venere di Willendorf (dal nome del sito in cui fu ritrovata) alta 11 centimetri e scolpita nella pietra calcarea, era ed è una chiara personificazione della fertilità. Non ha volto ma una testa schiacciata che pare tutta riavvolta da anelli di treccioline, decorati oltretutto con dovizia di dettagli. Non ha braccia e neppure piedi. Ma ha seni generosi, un po’ cadenti e preludenti l’allattamento. Anche la vulva appare turgida. E il ventre è convesso. Tutto allude alla maternità, alla procreazione. A un auspicio che probabilmente ne contrassegnava la funzione. Del resto, tutte le statuette risalenti al Paleolitico Superiore e fino al Neolitico avevano questa funzione. Erano scolpite prevalentemente nella pietra calcarea o nell’avorio delle zanne dei mammuth. Di piccolissime dimensioni – non superavano i 25 centimetri – queste “Veneri”, così denominate dagli archeologi, erano divinità augurali. Per gli uomini primitivi la donna stessa era sacra in quanto a lei soltanto era dato il potere di procreare. A quel tempo l’uomo non era consapevole del ruolo determinante che egli stesso rivestiva nel concepimento. Non aveva probabilmente chiaro che suo fosse il seme grazie al quale germogliava la vita. Semplicemente, trovava eccezionale questo miracolo e venerava la donna che aveva il dono di renderlo possibile.
Ecco allora la deità femminile ancestrale. Ogni donna era una dea. Il mito della creazione era qualcosa di esclusivamente femminile. Non è difficile comprendere il perché queste statuette a tuttotondo siano state rinvenute nei pressi di siti abitativi, ipogei, o ancora conficcate nel terreno in luoghi probabilmente destinati al rito del dono. Vi è, però, una scuola di pensiero che ritiene invece sbagliata questa interpretazione, sostenendo piuttosto che una popolazione di cacciatori avrebbe preferito avere meno concorrenti a cercar prede nei territori in cui si muoveva, e avrebbe quindi mirato a ridurre le nascite. Più che all’augurio di fertilità, questa Dea Madre della Terra avrebbe avuto a che fare con l’angoscia di morte. La statua-amuleto doveva allora essere una sorta di garanzia di rigenerazione della vita. È curioso a tal proposito notare come, in diverse sepolture ipogee di età Paleolitica e Mesolitica, corpi e ossa siano stati trovati ricomposti in posizione fetale e cosparsi di ocra rossa. Questo sempre per alludere alla ciclicità di morte e vita, dunque alla verità di rigenerazione che il corpo sacro femminile assicurava. Ad ogni modo, che fosse o meno amuleto propiziante nuove nascite e copiosi raccolti, questa Dea Madre scolpita ci testimonia comunque la centralità e la sacralità del femminile nelle prime società preistoriche. Cosa è successo allora, in seguito?
Nel tempo, la deità femminile ha perso di valore perché sostituita da divinità maschili che rappresentano il successivo mutamento della struttura e dell’organizzazione sociale. Il merito di cui il maschio investì se stesso fu la forza. Forza fisica, costruttiva, militare e organizzativa. Una forza dominatrice che nel tempo avrebbe tolto valore alla donna, ponendola in secondo piano e poi in posizione di sudditanza e obbedienza. Nonché di inferiorità, nel corso dei secoli. La donna come incarnazione della Grande Dea Madre, capace di comunicare con una dimensione extraterrena e ispiratrice di una vera e propria religione orientata al femminile, dovette pian piano lasciare il posto al predominio maschile. Quello di re bellicosi e sanguinari conquistatori. Pensiamo alle civiltà della Mesopotamia. Sumeri, Babilonesi, Assiri. Pensiamo a quanto guerrafondaio fosse il popolo degli Assiri e a quanto dovette fortificare le sue città-stato. Una delle principali divinità era infatti proprio il dio Assur, che portava il nome dell’omonima città.
Eppure in questo periodo storico ancora resiste la presenza di una divinità femminile. Una divinità che però era divenuta più aggressiva e spregiudicata. Direi ambivalente. Mi riferisco alla Dea Babilonese Ishtar. Piuttosto diversa dalle veneri preistoriche, evoluta se vogliamo, insieme alle società e alle città. Non più soltanto dea della fecondità, ma anche dell’amore e dell’erotismo. Dea amorevole ma terrificante, poiché era al contempo dea dell’amore e della guerra, della fertilità e della distruzione. Derivata dalla sumera Inanna, è come questa una dea lunare. Ishtar era infatti anche considerata dea della Luna. È colei che apre l’utero, che dispensa la vita. Ma che insieme alla vita può dispensare la morte. Esattamente come se seguisse le fasi lunari: luna crescente sta per gestazione, luna piena sta per ventre partoriente, luna calante sta distruzione. Ma la ciclicità riporterà vita e nulla mai finirà... La luna piena, l’uovo lunare, è quindi il ventre di Ishtar quando crea la vita.
Una dea peraltro incestuosa, dal momento che secondo alcuni miti si innamorò di suo figlio Tammuz e ne divenne l’amante. Ma Ishtar aveva in verità molti amanti e nonostante questo, come la luna, restava sempre vergine. Del pantheon babilonese fu regina di tutti gli dei e a lei fu dedicata una delle porte della città di Babilonia, precisamente l’ottava, oggi meravigliosamente ricostruita e conservata al Pergamonmuseum di Berlino. È strano, è una mia impressione – e probabilmente verrebbe confutata da archeologi, storici e ricercatori molto più esperti di me – ma è come se la divinità femminile, per tener testa a quelle maschili nascenti, abbia dovuto rendere se stessa più dura, pericolosa e temibile e spregiudicata. Perdendo quell’accoglienza materna che aveva in epoche precedenti.
Tra il 5000 e il 2500 a.C. invece, sull’isola di Malta, il culto della dea prese piede con un intero repertorio di riti religiosi. La dea anche qui aveva una duplice valenza: era dea della vita e presiedeva i riti del parto, ma era anche dea della morte. Di una morte che però è fase di una ciclicità, preludio di rinascita. Quindi ritroviamo anche qui la ciclicità insita in Ishtar. Molti sono stati i ritrovamenti, soprattutto nell’ipogeo di Hal Saflieni. Inoltre, all’interno di alcune sale sono state rinvenute decorazioni spiraliformi realizzate in ocra rossa e evocanti il principio di rigenerazione. Tra le statue maltesi la più fascinosa e originale è certamente la Dea Dormiente, detta anche” sleeping lady”, risalente al 3300 a.C. Ritrovata in una fossa votiva che accoglieva i sacrifici dei devoti, questa scultura rappresenta l’atto del dormire in attesa di sogni profetici. Le sue forme sono sempre generose, ma stilizzate e ovoidali. Di una modernità spiazzante, possono ricordarci Brancusi o Modigliani.
Ma se posso dire la mia, la più bella delle dee mai scolpite per me resta la Dea minoica dei Serpenti! Riprodotta in più esemplari e sempre di piccolo formato, oscillante tra i 28 e i 38 centimetri, è anch’essa simbolo di fecondità. Curata in ogni dettaglio, con seni prominenti in vista e un busto sottilissimo, indossa una lunga veste a falde svasata, e stringe orgogliosamente tra le mani due serpenti. Il serpente era l’animale che simboleggiava la rigenerazione, la fertilità e la sessualità. Inoltre, in diverse culture arcaiche e sciamaniche esisteva il culto della dea serpentiforme, ovvero una dea che si tramutava in serpente per utilizzare i propri poteri. Vi è poi un’antica reciprocità tra il serpente e la donna. Ovvero, serpente e dea sono la stessa cosa. Se il primo ha il potere di rigenerare se stesso cambiando pelle, dunque fuoriuscendo nuovo da un corpo che mira ad abbandonare, la seconda fa uscire dal proprio corpo la vita. La dea minoica è piena di grazia femminile ma al contempo è altera e virile. È solenne e vincitrice. Viene chiaramente identificata come la Dea Madre dell’isola di Creta e risale al 1600 a.C. circa. A questo punto non mi addentrerò nell’analisi delle divinità femminili dell’Olimpo greco. Sottolineo soltanto che, secondo il mito dell’origine, dal Caos oscuro apparve Gea, la Terra appunto. Un’entità primordiale femminile, dalla quale tutto nascerà. E che in dialetto ionico la terra si nominava Gaia.
In ciascuna di noi resiste una Dea. Una madre sacra. Eppure siamo tutte figlie di un retaggio culturale che nei secoli dei secoli è stato potentemente maschilista e patriarcale. All’insegna di Imperatori, Papi, Signori e Cavalieri. All’insegna di Poeti, Pittori, Scultori e Compositori. E le donne chiamate alla propria vocazione più creativa – che andava ben oltre il partorire prole, anche se la creatività femminile resta sempre uterina - si sa, non hanno avuto vita facile. Ma quella vita non facile l’hanno voluta fortissimamente, e madri del proprio destino lo sono state. Personalmente, trovo che ci sia qualcosa di magico e sciamanico in una donna incinta, così come in una donna che crea. Credo ci sia qualcosa di sacro in ogni donna che scriva, dipinga, componga, danzi, fotografi. Ogni donna che attinge al proprio animo e al proprio vissuto, compie un piccolo miracolo trasformativo. La creatività femminile è certamente uterina. L’utero è Il luogo dove una donna è più che una donna. È il luogo primario in cui alberga la sua assoluta deità.
Ogni donna è teneramente e grandiosamente madre quando genera ed edifica qualcosa in cui crede. Probabilmente oggi ci sentiamo belle così sottili, vuote, longilinee. Sembriamo pure. Eteree, leggere. Più cristalline ma meno resistenti agli urti. Probabilmente abbiamo bisogno di apparire evanescenti perché ci percepiamo molto più fragili di un tempo. Eterne figlie, alla ricerca di abbracci paterni anche negli uomini che amiamo erroneamente. Bisognose o intransigenti. Anoressiche del desiderio e del controllo delle emozioni. Probabilmente siamo spaventate dalla nostra stessa carne.
Siamo spaventate dal potere che un corpo vero e materno, ha.
Ma in verità, abbiamo soltanto dimenticato quanto immenso sia il nostro potere spirituale.