La cultura non è commestibile? E meno male. In quale momento è saltata fuori l’idea grossolana e deviante che si debba mangiare un panino imbottito della Primavera del Botticelli o delle rovine dell’Appia antica?
Quando certi ministri e i loro sodali hanno cominciato a dire che “con la cultura non si mangia” i tempi erano già pronti perché frasi del genere fossero ritenute degne di una risposta. I cittadini di buon senso, poveretti, si sperticarono a spiegare che, pur non potendo tritare la Pietà Rondanini e farne impasto da crocchette, in un paese colmo di capolavori e vestigia come l’Italia, che risuona delle musiche più speciali, che ha creato un cinema ancora d’ispirazione e che ha teatri straordinari nei paesi più remoti, con la cultura si mangia perché i turisti la pagano. Certo che potremmo vivere nell’agio se invece di far crollare Pompei, ormai simbolo dello scempio nazionale, valorizzassimo il nostro patrimonio artistico, ma la questione è comunque mal posta: a quei ministri bisognerebbe rispondere che la cultura non è roba da frigorifero.
La cultura non è commestibile, è ineffabile. Prendi l’arte della musa Melpomene, la tragedia. Dice Giancarlo Cauteruccio, direttore artistico del Teatro Studio di Scandicci, da trent’anni regista e interprete che ragiona di continuo per capire se ha senso quello che fa: “Il teatro non ha nulla a che fare con il mercato. Ed è oggi più che mai necessario per recuperare l’esperienza sensoriale perduta con il virtuale”. Secondo Cauteruccio il teatro dovrebbe rinchiudersi nella sua nicchia e produrre energia vitale, non certo banalizzarsi per acchiappare il pubblico. “L’arte è lo strumento della condivisione e dello stimolo interiore. Non può dare risposte, pone interrogativi. Io non voglio che lo spettatore esca soddisfatto dai miei spettacoli, non voglio appagarlo”. Affinché il rimuginare echeggi nel tempo.
Innovazione è la parola che si associa all’architetto Cauteruccio divenuto uomo di teatro internazionale nel 1983 con un’Eneide della quale ancora si parla, “uno dei primi esperimenti di esclusione della parola da un testo poetico, in favore dell’immagine e del suono”, che entusiasmò anche il New York Times. Innovazione perché, alla fine degli anni Settanta, Cauteruccio decise di fare subito i conti con la televisione che, lasciato lo stile culturale degli inizi (il bianco e nero, i grandi attori, vedi Gino Cervi nei panni di Maigret e Tino Buazzelli in quelli di Nero Wolf, il maestro Manzi che insegnava la lingua agli italiani) stava diventando la televisione. La nostra televisione di adesso, sebbene ormai anch’essa insidiata da internet, quella del colore, delle decine di canali, del quarto d’ora di celebrità per tutti profetizzata da Andy Warhol, quella dell’esibizionismo, quella capace di incidere sull’animo degli spettatori, come da progetti (realizzati) della loggia P2 che prevedevano il controllo delle coscienze attraverso la TV.
Lo schermo è una scatola, il palcoscenico è una scatola. La differenza è “il qui e ora “ che solo il teatro può dare. Con il suo teatro tecnologico, Cauteruccio mise in relazione gli aspetti interiori del teatro classico con la superficialità. “La scena è il luogo di sintesi delle discipline e in Italia, negli ultimi trent’anni c’è stata una rivoluzione perché il teatro, meglio e prima, che in altre parti d’Europa ha stabilito una forte relazione con le arti visive”. E l’architetto Cauteruccio, anche pittore, passò dalla pittura allo spazio, tornando quindi ai suoi studi sull spazio “dove s’incontra il corpo, che è la principale unità di misura dello spazio. Per il teatro tecnologico bisognava cambiare il modo di leggere il testo. Non più attenti solo alle poetiche, ma all’architettura del testo”.
Non fu facile. Porre il proprio corpo al centro del proprio lavoro, “un corpo diverso, obeso”, rileggere il testo, inserire le tecnologie e le performance di artisti. Per niente facile e Cauteruccio si ritrovò nel bel mezzo del gelido inverno di una tremenda crisi esistenziale. “Ed è allora che ricorro a Beckett, il maestro. La consapevolezza del vuoto, la necessità del silenzio. E l’esperienza tecnologica maturata negli anni precedenti mi aiuta a penetrare la partitura della sua drammaturgia. Se si legge Beckett in modo normale ci si può chiedere: ma questo che dice? Poi quando si porta in voce, quando le parole risuonano e ogni esitazione, ogni pausa sono fondamentali riaffiora il senso”. Il teatro dell’assurdo per affrontare la nostra vita assurda? La critica ritiene Cauteruccio uno dei principali metteur en scene dell’opera di Samuel Beckett: quindici anni fa il regista tradusse in calabrese Finale di partita con il titolo di U juoco sta’ finisciennu e ha allestito in tutto sette spettacoli beckettiani.
Per dedicarsi alle innovazioni e alle contraddizioni è indispensabile appartarsi in periferia. La periferia di Cauteruccio è quella di Firenze: Scandicci, sede del Teatro Studio. Senza paragonarsi, e lo specifica, il regista cita Peter Brook e il suo teatro nella banlieu parigina. Bisogna che il luogo sia scomodo da raggiungere, lontano dalle grinfie del sistema e perché lo spettatore sia consapevole e non entri a caso. La Compagnia Krypton, fondata nel 1982 da Cauteruccio e Pina Izzi, ha prodotto, fra l’altro, il Progetto Beckett, un’indagine pirandelliana su Uno, nessuno, centomila, Cinque atti teatrali sull’opera d’arte con al centro della rappresentazione opere di artisti contemporanei come Kounellis, Castellani, Pirri, Cecchini e Volpi. Il teatro Studio, che non ha sipario per non separare il pubblico dagli attori, è anche teatro d’ospitalità: è un vero e proprio laboratorio e presto sarà una scuola per giovani.
Il (non) sipario è sceso in questi giorni su Finale di partita di Beckett , il (non) sipario si rialzerà per i prossimi appuntamenti l’8 e il 9 marzo con Colpo su colpo, un progetto composto da Riccardo Caporossi, poi il 22 e il 23 marzo con Sad Sam/Almost 6 di e con Matija Ferlin, Roccu ‘u Stortu, lo spettacolo che una decina d’anni fa rivelò il talento del Cautereccio junior, dal 9 all’11 aprile. In Finale di partita i quattro protagonisti sono tutti calabresi, Cauteruccio (Hamm), suo fratello Fulvio (Clov), Francesco Argirò (Nagg) e Francesca Ritrovato (Nell), e recitano in italiano, ma con l’accento e le inflessioni meridionali “una scelta dettata dalla volontà di dare carattere alla lingua e al corpo degli interpreti, intesi come testimoni reali delle proprie esistenze”.
Cauteruccio parla del fratello, complice di molte avventure teatrali: “Fulvio arriva dalla scuola di Vittorio Gassman e ha portato in compagnia l’esperienza dell’attore ottocentesco, ha messo a confronto due generazioni, perché è più giovane di me di undici anni ed è alto e bello mentre io sono basso e grasso. Anche se con il tempo pure lui…”.