Il Ghetto di Venezia 500 anni dopo. Raccontarlo, immortalarlo, definirne una storia e un'identità. È quanto ha rappresentato uno dei più importanti fotografi italiani, Ferdinando Scianna, in una mostra dall'omonimo titolo, in corso a Venezia alla Casa dei Tre Oci fino all' 8 gennaio. Curata da Denis Curti, l'esposizione veneziana è frutto di un lavoro fotografico realizzato su incarico della Fondazione di Venezia in occasione del cinquecentenario dell'istituzione del Ghetto ebraico.
Nato a Bagheria nel 1943, Scianna sin dagli anni Sessanta ha raccontato per immagini la cultura e le tradizioni della sua regione d'origine. Nel 1966 con il suo primo libro, Feste religiose in Sicilia, riceve una menzione al premio Nadar. Fotoreporter e inviato speciale per L'Europeo dal 1967, diventa in seguito il corrispondente da Parigi, e nel 1989 socio dell'agenzia fotografica Magnum.
La sua indagine sin dagli inizi si sviluppa attorno al concetto delle identità individuali e collettive, e nella ricerca delle tradizioni di natura antropologica. Proprio in questa direzione muove il lavoro fotografico veneziano, in pieno stile Street Photography, con immagini inerenti la vita quotidiana del Ghetto, ma senza per altro tralasciare ritratti, architetture, interni di case e luoghi di preghiera. Un arcipelago di soggetti e di situazioni animano il panorama visivo di un progetto radicato e circoscritto a un'area del capoluogo lagunare.
Così, per Il fotografo siciliano ricostruire una memoria, in un rigoroso bianco e nero, è stata la mission sulla quale cimentarsi, il senso di un'indagine dentro cui raccontare, a distanza del tempo, storie e identità o i luoghi di una realtà. E a Cannaregio, uno dei più popolari sestrieri di Venezia, il Ghetto ebraico viene così rappresentato passo dopo passo attraverso le scene di una quotidianità tutta dentro la storia, la forma e le tradizioni. E lo si coglie tanto nelle immagini di una donna intenta a guardare la strada dalla sua finestra, quanto da un gruppo di bambini che si arrampicano su di una vera da pozzo, nell'uomo in preghiera accanto al “banco rosso” o nei gruppetti di persone che attraversano il campo.
E ancora, nella preghiera del mattino nella sede del gruppo Chabad-Lubavitch, il restauratore di mobili, l'anziana signora della casa di riposo, o nelle case che svettano alte, nel selciato bagnato, o nel Rio del Ghetto Nuovo – tutti elementi di un sistema di dettagli che dialogano tra di loro. Ed esemplificativa a complemento della sequenza è una panoramica del campo del Ghetto Nuovo visto dall'alto della Kosher-House il “Giardino dei Melograni”. Proprio dentro questa rappresentazione visiva emerge il discorso narrativo, che trova nell'intreccio tra la dimensione simbolica-rituale e i luoghi un'originalità descrittiva di un tempo presente, la cui impronta si manifesta nel quotidiano e nella memoria, oltre i cinquecento anni di una storia.