Smesso che fu di nevicare, Pinocchio, con il suo bravo abbecedario nuovo sotto il braccio, prese la strada che menava alla scuola: e strada facendo fantasticava nel suo cervellino mille ragionamenti e mille castelli in aria uno più bello dell’altro.
(Le Avventure di Pinocchio, IX, Collodi)
C’era la neve. Fresca, incontaminata. All’inizio il mondo è puro. L’Origine è sempre intatta. Nel Paradiso terrestre povero ma dignitoso di Pinocchio la genesi biblica del burattino chiamato ad esser Uomo (come l’uomo è chiamato a divinizzarsi) ci rivela segni e immagini pure, vivide, gravide di promesse e di speranze. Un berretto morbido come il pane, un vestito ricco di fiori, sandali di scorza, “d’arborea vita viventi” direbbe il Vate.
Il vestito è segno scritturale di onore e di benedizione che solo vengono da Dio. Pinocchio è “fuori” quello che è chiamato a diventar presto “dentro”. Fiori che anticipano frutti. Geppetto è un piccolo San Giuseppe, come il suo nomignolo indica, un custode di una vita che non possiede. Pinocchio è segno vivente del Natale, del “ceppo natalizio” di tanti racconti antichi, popolari. Scheggia e simulacro tratto dall’edenico Albero della Vita.
La storia è una riedizione domestica e buffa del Natale del cosmo. Il velo di commedia rivela una cosmogenesi. La storia “rischia” di terminare appena iniziata. Ma sulla strada innevata, povera di orme, Pinocchio cammina solo. Sembra il primo uomo della storia. Cammina su neve appena caduta. La strada è la scelta, l’ambiguità della soglia, l’apparenza indifferente della reversibilità. Eccesso di bivi e di segnali fuorvianti. Il peccato originale del semiburattino è identico al peccato angelico: eccesso di immaginazione! Un cervello piccolo ma produttore ipertrofico di “castelli in aria”. If you’ll dream it you’ll do it. Una megalomania simpatica che quasi non si accorge di se stessa. Una proiezione ideativa incontrollata che genera un mondo irreale dove il nostro eroe diventa dotto in pochi giorni e regala un vestito di oro e di argento a Geppetto.
La colpa è il vuoto, l’assenza, il salto del sacrificio necessario per raggiungere la meta. L’inferno è lastricato di buone intenzioni. L’oro e l’argento sono segni di totalità, simboli divini, nuziali e regali. La storia di Pinocchio è la storia della ricerca dei giusti vestiti e del tempo di calzarli. L’epopea del burattino è l’avventura di imparare a sognare bene, evitando incubi, il percorso per giungere a vedersi vivere senza smettere di vivere. Lui sa camminare ma non sa incamminarsi. Dritto o deviato sembrano lo stesso. La musica pare quasi irresistibile per un essere ligneo, reattivo e vibrante a sonorità di tamburo e di flauto. La strada devia e scende al mare, lunghissima. Quanta strada ma la musica ci fa insensibili alla fatica di raggiungere un “paesino fabbricato sulla spiaggia del mare”.
Doppia artificiosità: la mobile spiaggia e fabbricazione come improvvisazione effimera, di facciata. Pinocchio preferisce la sabbia alla neve. Compie al contrario il viaggio dei Magi prima di arrivare alla meta. L’ingresso al “Gran Teatro dei Burattini” è la porta dell’Ade, il cartellone è scritto a grandi lettere rosso fuoco, come l’entrata parlante dell’inferno dantesco, come la bocca di pietra di Bomarzo. L’autoesilio di Pinocchio nel teatro di ombre della trasgressione è l’uscita nel deserto extraedenico dove il premio costa fatica e c’è solo l’eterno ritorno dei ruoli e la libertà-fratellanza costa cara. Si paga con il rischio di consumarsi nel fuoco che deve cuocere il grande “montone”. La vittima che Mangiafuoco/Minosse vuole tutta cotta come un olocausto ricorda l’ariete messianico che Abramo sacrifica al posto di Isacco. Ben cuocere la Provvidenza, ecco la vita.
L’amore, il diritto, sono forme di sostituzione, di riparazione. Ecco il fulcro giuridico del Natale: chi si deve sacrificare? Il cuore duro della vita extraedenica, il nocciolo che cela il midollo. Occorre comunque partecipare a un sacrificio perché solo il sacrificio regge e garantisce la permanenza del mondo, visualizzata dall’incessante ruotare dello spiedo nella grande fucina di Mangiafuoco. Ci sono vari e anche opposti modi di vivere questo partecipazione al sacrificio. Come Geppetto che si denuda cristicamente per vestire il suo figlio adottivo. Come Pinocchio che rinuncia demonicamente alla rinuncia amorosa di Geppetto, “sacrificando” il sacrificio. Pinocchio sacrificatore di vita umana, parassita di sacrifici altrui. Nella prigione divertente di Mangiafuoco il pubblico crudele non vuole che la farsa smetta mai e la verità è bandita. Vale solo la verosimile finzione.
In questo incubo il nostro eroe subisce il suo primo arresto ad opera di burattini “giandarmi” con simboliche luci sul capo. Mangiafuoco da despota e regista occulto si trasforma in Giudice e Sacerdote, garante del sacrificio perenne. Pinocchio e Mangiafuoco si mutano e si convertono reciprocamente, dialetticamente. È il secondo arresto della storia, dopo quello dell’innocente Geppetto. Un “arresto” sia di giustizia (la giustizia che regge il Teatro del mondo dei burattini) che di tipo etico e metafisico. Occorre fermarsi per trasformarsi e andare avanti. Chi sovverte “la parte”, di cui è prigioniero lo stesso Mangiafuoco, “costretto” da Pinocchio a diventare attore sul palcoscenico, diventa legna da ardere, perde la dignità di burattino. Non può più recitare. Come fidarsi?
Pinocchio si redime offrendosi al posto di Arlecchino, come vero eroe ma anche come vero attore di un dramma che recita e incarna nel contempo. Il coraggio del burattino inaugura una nuova giustizia, natalizia, fatta di misericordia, perdono e immedesimazione di Mangiafuoco nel ruolo di Geppetto. Alla fine è Mangiafuoco che si sacrifica perché torni la pace nel suo cosmo, liberando così Pinocchio, corpo estraneo perché vuole vivere da Uomo e non può quindi fermarsi a recitare. Sarà il contadino che lo scambia per ladro di polli ad arrestarlo per la seconda volta condannandolo a una pena pienamente rieducativa: il ladro che deve fare la guardia ai polli che è accusato di rubare!
La terza volta sarà la volta del giudice scimmione per il quale la colpa è l’essersi fatto truffare, non il truffare, regola genetica del Paese di Acchiappacitrulli! Non manca di logica il Collodi! Dopotutto anche l’antica Roma soccorre: vigilantibus, non dormienti bus, iura succurrit. L’ultimo arresto sarà sempre più reale e sempre più giuridico e in quanto tale massimamente ingiusto: due veri carabinieri sulla spiaggia del mare (ancora) scambiano Pinocchio che soccorre Eugenio nel suo assalitore! Qui la colpa è l’immedesimarsi. Altra sostituzione sacrificale. L’Isola delle Api Industriose, che sembra così perfetta, celerà poi il Paese dei Balocchi e il Circo, altri due “Teatri del mondo”, sempre più crudeli, dove l’umanità è ridotta prima ad animalità, ad agitazione motoria, per essere infine reificata come prodotto da smerciare in fretta in piazza. Parole che mi ricordano qualcosa, oggi.
La neve non tornerà più nella storia. Ma ci piace immaginare, quasi lo percepiamo, che il Sogno finale fatato, donato e non fantasticato, che trasmuterà il burattino in Uomo, avvenga proprio la Notte della Vigilia di Natale.