Creature maledette e splendide, dal sesso incerto, come quello degli angeli, ma decisamente più interessante
(Anne Rice)
Sto per spingere il primo passo in un terreno inesplorato dello scrivere dell’opera letteraria. Sebbene sia il mio percorso, non mi avventurerò nel giudizio di qualità del luogo che raggiungerò, se si tratti di deserto o di campo fertile, starà alla sensibilità del lettore valutare.
Nell’approcciarmi alla critica artistica e a quella letteraria, ormai da tempo, non riesco a separarmi dai precetti baudelairiani, che sebbene adopero con maniacalità quotidiana, non ho ancora appreso a memoria, pur avendoli metabolizzati: passione, parzialità, ecc. Dal momento che il vulcano Internet, collocato oltre le pendici delle vostre scrivanie, a ridosso delle pareti dei vostri studi, erutta a comando qualsivoglia aneddoto e nozione, a partire dal classico sfavillare delle pagine wikipedia fino a giungere alle composte fantasmagorie pirotecniche dei siti ufficiali degli autori, non mi prenderò la briga onesta e laboriosa di aprire il browser nel dissertare appassionatamente di una delle mie due saghe letterarie preferite. Ma vi racconterò la storia che ci lega, quella umana ed ermeneutica, e nel farlo vi premetto e prometto di non essere sincero, posso giurarvi che esagererò, arricchirò la realtà di creazione e frutti dell’immaginazione, spingerò il vostro sforzo di comprensione fino a resuscitare l’amigdala atrofizzata per ottenere un salvifico mal di testa e quindi, spero, la gioia della follia.
La prima volta che sentii parlare di Anne Rice accadde in una lingua che non era la mia. Mio malgrado, ma senza troppi crucci ipocriti, ho la fortuna di provenire da una famiglia che sono felice di non dover definire ricca o aristocratica, ma che mi ha comunque permesso di vivere gli anni della formazione agiatamente e senza preoccuparmi del sostentamento… ho vissuto la straordinaria esperienza dell’Erasmus. Fra il duemiladue e il duemilatré mi trovavo nella Siviglia dei Saraceni, della Rinascita del tredicesimo secolo, soprattutto in quei primi giorni in cui non sputavo ni agua ni pan e quei significanti musicali ed erotici erano vuote note che simpaticamente m’investivano declinati in cadenze amichevoli e accoglienti. Poi fu il whiskey, ma è un’anticipazione.
A differenza della maggior parte degli studenti Erasmus, soprattutto dal momento che avrei dovuto tenere a bada la spinta ormonale a cagione di una promessa d’amore fedele che mi legava a una donna italiana rimasta in patria e violenta, non frequentavo le feste ma i corsi universitari, non mi accompagnavo ai molti compatrioti ma agli indigeni, leggevo, mi ubriacavo e scrivevo, invece di far professione di libero amore. Fu a partire da queste premesse che scelsi d’abitare con due studenti spagnoli: Rafaél e Jésus, da me simpaticamente ribattezzato Gesù, per gioire nel nominarlo invano di tanto in tanto.
Per simmetria aprirò una digressione che mi vede recitare in un claudicante spagnolo il monologo principe di La vida es sueño dell’ottimo Calderòn, alla festa per il genetliaco di Rafa, completamente ubriaco. Ma alla fine dei conti fu con il timido e schivo Gesù ch’ebbi lo scambio intellettuale più proficuo. Gesù era figlio di un militare, un ufficiale di marina, ma a differenza di Jim Morrison non soleva accompagnarsi a uno stuolo di ragazzine adoranti o concedersi eccessi d’alcun tipo. In verità non studiava cinema o altra forma d’arte, oppresso dall’aspettativa e dai progetti paterni era iscritto con profitto a giurisprudenza… Ma coltivava sapientemente il passatempo della scrittura. Mi parlò del lavoro certosino alla creazione di un romanzo gotico, della propria passione per i vampiri, nominò il suo faro e modello: la scrittrice statunitense Anne Rice. Mi sintetizzò con potenza visionaria l’argomento della saga: creature immortali che si nutrono di sangue, caratterizzate da una sensualità ed erotismo che trascendono quelli umani, impegnati a riempire non le ore ma i secoli nell’acquisizione e nel perfezionamento delle competenze artistiche più disparate.Trovai accattivante la descrizione, ma il genere letterario a quel tempo si discostava parecchio dal mio gusto, ero infatti intento a leggere i consigli di quei due o tre amici avidi lettori di letteratura contemporanea che svolgevano per me il ruolo di filtro, evitavo di macchiarmi il cervello di banalità.
Cos’è un “lettore onnivoro”? Fondamentalmente un drogato come un altro, un individuo cui l’assistenza sanitaria dovrebbe fornire gratuitamente la sua medicina, una fra tante anime belle che non tollerano la prosaica decadenza della società in cui vivono e sfruttano la letteratura quale strumento di consolazione ed evasione. Né artisti, né fruitori ideali, talvolta critici. Cos’è un critico? Quasi sempre un’artista sul cui uscio la cagna dell’ispirazione non si degna di pisciare. Non sono mai stato un lettore onnivoro, sebbene abbia tenuto ritmi vertiginosi di lettura, uno alla volta anche tre o quattro a settimana per alcuni intensi periodi d’interesse per argomento o genere, non mi sono mai lasciato andare alla tentazione di strumentalizzare un oggetto fornito di pagine per calmierare la smania d’evasione. Il genere di fantasma nato dallo schianto con la realtà, che uccide le mie visioni, io lo imprigiono su carta o su tela, posso al limite poggiarlo gentile sulle labbra di una donna intelligente.
Da questa mia attitudine conseguono periodi di astinenza dalla lettura e in particolare quello cui facciamo riferimento fu la naturale conseguenza del vuoto malinconico appiccicatomi addosso dalla conclusione di una maratona di studio della civiltà dei nativi amerindi, che mi vide impegnato per qualche mese, circa un anno dopo il mio rientro da Siviglia. Lessi tutto ciò che mi pareva avesse valore, saggistica, biografie di guerrieri, sciamani, raccolte di canti e miti e leggende. Rimasi prostrato dal dolore di sapere sparita per sempre una comunità che, pur senza avere la minima nozione del fatto che uno dei pilastri della sopravvalutata cultura occidentale l’aveva teorizzata secoli prima in un luogo lontano, aveva realizzato spontaneamente qualcosa di molto simile alla Repubblica Platonica.
Seguì il vuoto delle letture. Nessun argomento stimolava la mia curiosità e resistetti a lungo fra bagordi e sconvolgimento del ciclo circadiano, qualche sporadica creazione d’opere pittoriche. Poi ricordai la parola di Gesù in merito al ciclo dei vampiri. Fino a quel momento avevo provato repulsione per i generi gotico e horror. A oggi non ho mai letto Stephen King e ho avuto modo solo sporadicamente di guardare film di paura. Fu l’idea di un’immortale che affina le sue doti di pianista o violinista per l’eternità che stimolò la curiosità e accese l’istinto a recarmi dapprima in biblioteca, due città dopo la mia, che al tempo non era dotata di una biblioteca. Mi procurai Intervista col vampiro, il primo capitolo della saga. Fu amore a prima lettura, mi immedesimai subito con Lestat. L’ambientazione mi convinse che c’era un pezzo della torbida New Orleans strappato in qualche modo dal destino e collocato nel mio spirito di giovane uomo insoddisfatto e malinconico e notturno. Anch’io ero sempre combattuto fra la brama di sangue e l’etica pacifista di chi ripudia la sopraffazione, aborrisce il sopruso e investe a unico tabù l’omicidio.
Fui folgorato dalle trame avvincenti che vedevano agire queste creature soprannaturali, mi lasciai trascinare in un’empatia smisurata e senza precedenti dall’etereo sentire dei non morti, sempre innamorati e sempre combattuti fra il bisogno del riposo eterno, la noia, il rimpianto per aver rinunciato al sole e alla vera vita e lo sfruttamento del proprio potere demoniaco. Non persi tempo e dopo aver divorato il primo capitolo mi recai, questa volta in libreria, ad acquistare sia il primo (il senso del possesso non fu prealessandrino) che il secondo volume. Scelti dalle tenebre mi esaltò! In quegli anni rivestivo ancora l’immeritato e ingrato ruolo di volto e autore di una rock band… ragion per cui, leggere la narrazione della trasformazione di Lestat, in epoca contemporanea, da rampollo eterno della decaduta nobiltà francese in rockstar notturna internazionale, fu un piacere intenso che ancora oggi riverbera nel ricordo.
Sono passati almeno dieci anni dai mesi frenetici del divorare avidamente l’intera saga di Anne Rice, cui devo la mia gratitudine di lettore, creativo, essere umano. La memoria e l’inconscio sono indelebilmente pregni delle vicende e delle suggestioni che le sue creature hanno inciso. Purtroppo riportare a galla con precisione le trame sarebbe uno sforzo sovrumano oltreché spoilerante. Molti dei personaggi sono vivi nella memoria, tutti caratterizzati con sensibilità e gusto di genio, tutti originali e veri nel loro essere il parto di un rito appartenente alla magia nera e quindi di dubbia verosimiglianza per un ateo razionalista del nostro tempo, schiavo di secoli d’oscurantismo a opera di chiesa e scienza, quale non sono. Ma possiedo prove schiaccianti d’aver metabolizzato l’opera dell’erudita Rice.
Quando una scrittrice della sua caratura vende i diritti al cinema sono solito profondermi in un’accorata canzone che celebri l’evento: si tratta d’un alternanza d’alleluja e bestemmie, per sottolineare a un tempo il dolore di vedere l’ennesimo capolavoro letterario fatto a pezzi dalle pragmatiche esigenze di profitto della manipolatrice industria dei sogni e la gioia solidale per la pioggia di strameritati quattrini che inonderanno una vera artista, dandole modo di circondarsi dell’ispirante bellezza d’un’esistenza affrancata dal gioco della necessità del lavoro, consentendole di confezionare ulteriori perle da spargere a noi porci.
Dolorosamente obbligati a prendere atto della morte di Mircea Eliade, Anne Rice è a oggi la studiosa di religioni vivente di maggiore spessore. Non è concepibile che abbia creato affabulazioni d’argomento esoterico tanto intense e verosimili senza una sudata e solida preparazione sulle materie affrontate e infatti così non è. Nella mia breve e infelice carriera d’esoterista, qualche pericolosa scorribanda nel mondo della magia, dell’alchimia, della mistica, ho avuto modo di assimilare suggestioni che mi dicono inconfutabilmente che dietro la magistralmente confezionata opera narrativa della Rice si nascondono innumerevoli ore di studio, da sommare ad altrettanto innumerevoli ore di stesura e revisione.
Anne Rice scrive la voce “psicosi” nell’enciclopedia dell’immaginario collettivo e lo fa con stile, acume e gusto, impareggiabili. Ha qualcosa di divino il processo alchemico attraverso il quale la scrittrice compie il miracolo di manipolare con la fantasia il mito demoniaco. Il risultato è miracoloso.