A novant’anni dalla pubblicazione di Sotto il sole di Satana (1926) e a ottanta dal Diario di un curato di campagna (1936), Georges Bernanos si rivela uno dei più grandi scrittori del ‘900, e sicuramente, nella sua ispirazione religiosa, il più appassionato e profetico; a differenza dei suoi contemporanei colleghi cattolici, come Mauriac o Claudel - che pur avendo realizzato capolavori di alta spiritualità, mai erano riusciti a liberarsi da una patina di letterarietà o di mondanità- il nome di Bernanos evoca un personaggio al di là della letteratura, sfuggente a ogni catalogazione, con il suo anelito all’assoluto fatto di esaltazioni e anatemi, sempre controcorrente e alieno da ogni tentazione di successo e di potere.
Rappresentante scomodo di un cristianesimo rigoroso, dalle venature giansenistiche, tra speranza e disperazione, è stato anche un testimone, forse involontario, dell’ambivalenza della psiche umana, dove la lotta tra bene e male, tra divino e satanico, è metafora delle pulsioni più profonde dell’animo umano, in perenne lotta tra istinto di vita e di morte.
L’abate Donissan, protagonista di Sotto il sole di Satana (romanzo compiutamente ripreso al cinema da Maurice Pialat nel 1987) e in cui molti adombrano la figura del Curato d’Ars, si autoflagella moralmente e fisicamente, ritenendosi, masochisticamente, un sacerdote inadeguato e inetto, ma nello stesso tempo ha l’orgoglioso ardire di tentare di resuscitare un bambino prematuramente morto … Dio e Satana s’impossessano ugualmente di lui, ancora peggio si confondono e si sovrappongono facendolo dubitare della sua stessa identità: “O Satana! Per me, eccomi, sono qui dove tu m’hai ridotto, pronto a ricevere il tuo colpo mortale … chi può, con te, vincere di malizia? Quando è che ti sei arrogato il volto e la parola del mio Signore? Quando, primamente, ho io ceduto? In quale dei miei giorni ho accettato con insensata compiacenza il solo dono che tu possa fare – o fallace immagine della desolazione dei santi! – la tua disperazione ineffabile per il cuore umano? In ogni mia sofferenza, in ogni mia preghiera – oh l’idea terribile! – eri tu …prenditi tutto di me! Non lasciarmi niente, niente!… ”.
E il protagonista del Diario di un curato di campagna (anche qui mirabilmente trasposto in pellicola da Robert Bresson nel 1951), parroco di Ambrincourt, nell’Artois, conclude la sua sofferta esistenza, assistito da un prete spretato, con un “Tutto è grazia”, quasi a significare l’impossibilità di dare un senso razionale al bene e al male, perché il mistero della fede e della santità, o l’abisso della disperazione, spesso si riflettono: “Il mondo del peccato sta di fronte al mondo della grazia come l’immagine riflessa di un paesaggio, sul bordo di un’acqua nera profonda. C’è comunione dei santi, c’è pure una comunione dei peccatori”.
Visionario e realista a un tempo, l’autore del Journal d’un Curé de campagne materializza la sua poetica in uno stile difficilmente etichettabile: una sorta di espressionismo lirico che lo accomuna, nelle sue tinte più violente, alla pittura di un Rouault, artista tanto vicino a lui anche spiritualmente, come possiamo percepire nella descrizione del paesaggio invernale dell’Artois in Sotto il sole di Satana: “Le case vi sono rade, costruite in disparte, circondate da pascoli difesi da filo spinato. Attraverso l’erba ghiacciata che scivola e cede sotto i tacchi, bisogna a volte camminare a lungo per trovare infine, in mezzo a un piccolo stagno di fango solcato dagli zoccoli delle bestie, uno steccato di legno che stride e resiste fra i montanti fradici. La fattoria è più in là, in fondo a un avvallamento, e non si vede nell’aria grigia che un filo di fumo azzurro, o le braccia di una carretta dritta verso il cielo… ”.
Ma Bernanos è anche capace di cogliere liricamente la bellezza di un radioso giorno estivo, come in questo frammento tratto da La Gioia, un suo romanzo del 1929: “La gioia del giorno, il giorno in fiore, un mattino d’agosto, con il suo umore e il suo rigoglio, tutto rilucente e, per non so qual splendore perituro, anche la gioia di un sol giorno, il giorno unico, così delicato, così fragile nella sua impeccabile serenità, in cui appariva per la prima volta, in cima all’ardente canicola, la bruma insidiosa, che si trascinava ancora al di sopra dell’orizzonte, e che tra qualche settimana sarebbe discesa sulla terra esausta, sui prati dissodati, sull’acqua addormentata, con l’odore delle foglie secche”.
C’è, nella sua prosa, da una parte, il ricorso a una musicalità franta, quasi un’attesa inquietante che ricorda la Notte Trasfigurata di Schönberg, ma, dall’altra, anche il fluire di una melodiosità d’impalpabile serenità, accordata al filo di una memoria che si fissa in un punto di pienezza indimenticabile, con le mille sfumature di un’orchestrazione bruckneriana. Bernanos, grande romanziere, ma anche dissacrante “pamphlétaire”, è stato autore di libelli dove quelle esagitazioni apocalittiche che, a volte, appesantiscono la sua prosa narrativa, qui diventano materia nutritiva di uno stile in cui, alle invettive memori del suo grande maestro Léon Bloy, si mescola un’ironia beffarda ancor più tagliente.
La grande paura dei benpensanti, una delle sue opere polemiche più corrosive, è la denuncia della paura che ci blocca di fronte al rischio del mistero, dell’imponderabile, del “sacro”, è il terrore dello “scandalo” che mette in fuga borghesi perbenisti e preti accomodanti, ma è anche la paura che ci fa chiudere gli occhi di fronte allo sfacelo della modernità tecnologica, alla “civiltà degli automi”, alla falsa democrazia. Una democrazia basata sul numero: “Un mondo dominato dalla forza è abominevole, ma un mondo dominato dal numero è ignobile… È cosa da pazzi affidare al numero la custodia della libertà. È folle opporre il numero al denaro, perché sempre il denaro ha ragione del numero”, e così è sbeffeggiata la presunta eliminazione dei privilegi di casta: “Pretendere di aver liberato i popoli perché non si è lasciato sussistere che un solo privilegio – il più umiliante, quello del denaro – è un’enorme impostura”.
È poi ne I grandi cimiteri sotto la luna che Bernanos riversa tutto il magma della sua polemica politica: mentre nella quiete di Palma di Maiorca stava scrivendo il suo capolavoro, Il diario di un curato di campagna, scoppia l’“alzamiento” militare di Franco. Georges, monarchico e nazionalista convinto e nostalgico vandeano, s’illude di vedere nella ribellione una nuova “crociata” restauratrice dei tradizionali valori cattolici della Spagna, ma ben presto si accorge degli interessi economici e delle coperture internazionali che stavano dietro la facciata cristiana della “guerra santa” e si ritrae inorridito dalle atrocità commesse in suo nome, non inferiori a quelle di “rossi” e anarchici.
Quello che lo disgusta di più è l’atteggiamento di connivenza delle alte gerarchie ecclesiastiche con i “padroni del vapore”: “Il diritto di legittima difesa sembra sempre più riservato a una certa categoria di cittadini e quasi reso inseparabile dal diritto di proprietà, al punto che è possibile difendere a fucilate la propria casa, anche se uno ne ha parecchie, mentre con gli stessi mezzi non si può difendere il proprio salario, anche se non si possiede altro”.
Unica speranza, dopo tutte queste lancinanti delusioni, è allora una rivoluzione antipolitica, che affermi la libertà dell’uomo affrancato dal dominio delle masse, affrancato dal dio-denaro del capitalismo, ma anche dall’illusoria liberazione del marxismo, che colpisce solo l’ingiustizia materiale, ma non scopre il vero cancro della società moderna, che è l’odio dell’uomo verso se stesso, un principio di autodistruzione che lo porta, prima, a sacralizzare la materia, poi a distruggerla con la follia atomica.
E questa rivoluzione totale la potranno fare solo i “poveri di spirito”, i fanciulli, i soli felici della loro impotenza, i soli che traggono la loro gioia dall’incoscienza felice; e alla lettera di una sua giovane ammiratrice, lo scrittore rispondeva così: “Restez fidèle à l’enfance! Ne devenez jamais un grande personne. Il y a un complot des grandes personnes contre l’enfance … le Bon Dieu a dit aux cardinaux, théologiens, historiens, essaystes, romanciers, a tous enfin: 'Devenez semblables aux enfantes'. Et les cardinaux, théologiens, historiens, essaystes, romanciers répèten tde siècle en siècle a l’enfance trahie: 'Devenez semblables a nous'. Lorsque vous relirez ces lignes, dans bien des années, donnez un souvenir et un prière au vieil écrivain qui croit de plus en plus à l’impuissance des Puissant, à l’ignorance des Docteurs, a la niaiserie des Machiavels, à l’incurable frivolité des gens serieux … N’oubliez plus désormais que ce monde hideux ne se soutien encore que par la douce complicité – tojours combattue, toujours renaissante – des poètes et des enfants… ”.