Ora che ho preso confidenza con ogni tuo fluido corporeo, ora che sono diventato io il tuo orologio biologico, tu te ne vai.
“L'abitudine”, dici. “L'abitudine”. Come se stessi pronunciando il nome di un insetto.
Raccogli tutte le tue cose che conosco a memoria, il difetto che fa quel vestito sulla schiena, lo strappo nel taschino interno della borsa, il tuo rossetto rosso che non è mai a punta.
Le prendi al volo mentre parli, mi dici cose che non sento. Una specie di pifferaio magico che suona rancore e raccoglie ricordi.
Eppure amavi il tuo ritorno, i miei piedi scalzi sul pavimento, l'abbraccio che ti portava morbida sul divano. “Che bello tornare a casa”, dicevi. “Che bello tornare a casa”.
A quanto pare ci si stanca anche del rifugio, si cercano voli eterni senza nessun ramo dove riposare. Gli alberi sembrano stupidi intralci giganti. Stormi enormi di uccellini in ribellione, in vortici.
Chi è nato albero come me deve solo chiudere gli occhi e sperare di non vedervi sbattere, deve perdere le foglie sotto la tempesta della vostra fame. E pagare per la propria stabilità, per la mancanza di ali, per la forza delle radici. Ma io non ho mai desiderato farmi strada nel nulla, io sempre ho desiderato farmi strada dentro. Condurmi piano, centimetro dopo centimetro, in quel posto del mondo che mi appartiene. E quando tu hai fatto il nido sulle mie braccia aperte, io ti ho scelta e ti ho protetta, ho storto rami in tua difesa, fregandomene della direzione del sole. Anche verso il tuo buio, quello che ti sbrana dentro. Io da lì raccoglievo linfa, io da lì elemosinavo nutrimento. Sei stata la stella morta della mia fotosintesi.
E poi il nido è diventato stretto, tu maestosa, piena di piume nuove. Ed eccoti, che prendi la rincorsa, con quei piedini che ovunque passano mi lacerano il cuore.
Gli alberi non sono fatti per amare gli alberi. Nascono distanti, immobili. Gli alberi sono fatti per amare quelli come te. Ma quelli come te che cosa possono amare?
Non hai preso davvero tutte le tue cose, hai preso solo quelle che ti servono. Ed anche in questo sta il tuo perfetto egoismo. Hai usato queste braccia nuove e le hai lasciate sporche. Senza pensare alla fatica del mio ripulirmi, del mio cancellarti. Del mio ritrovarti nell'odore delle stanze, in un capello lunghissimo intorno ad un pettine, nel corpo assente di una mia maglia messa a lavare, nei tuoi bicchieri di plastica colorata, nella teglia che non hai mai usato per farmi un dolce, nelle tue labbra, gli occhi, il naso, le guance negli asciugamani.
Mi hai lasciato il cambio della pelle, i nodi del nido. Come quelli che lasciano i piatti in tavola per scappare via da un cataclisma.
E per te era l'abitudine, questo terremoto tremendo che ti spezzava le ginocchia, questo tsunami di attenzioni che ti soffocava, ti infilzava coi miei rami morti. E allora sei scappata, di corsa, lasciando che la tua casa marcisse, sparisse.
Chissà quanto durerà il tuo volo, quanto sarai capace di reggerti in aria. Dove andrai a cercare cibo, dove ti infilerai per dormire. Quale sarà il tuo prossimo albero, quando realizzerai che per vivere hai bisogno di un posto fermo, che il vento non porta riparo, non porta sostentamento. Che la terra, il ramo, il mondo, è il tuo piano d'appoggio. E se metti radici nell'aria ti tornano contro come lampi, come tuoni. Quando capirai che l'abitudine è una conquista. Un modo per esserci oltre il tempo e la paura. È l'impegno che prendi con ciò che ami. Un sacrificio, sì, ma sul tuo altare, e per ciò che veneri.
Quando capirai, sarà tardi per me. Ché sui miei rami sto caricando frutti, ed il tuo volo assillante e folle mi spazza via la vita. E ti vedrò forse passare, con la stanchezza che ti abbassa di quota, ti vedrò passare, che cercherai vermi nel marcio che hai lasciato. Ma qui, ora, solo germogli. Dai tagli che mi hai procurato coi piedini. Qui è tutta una cicatrice, un terreno arato che urla di vita. Sii forte nei tuoi piccoli polmoni, fai un altro battito e vai avanti. Qui lo spazio è immenso ma per te finito. Qui si canta, ogni giorno, l'inno all'abitudine.