C’era una volta in un paese sperduto tra i monti una splendida pianta di Larice di circa un millennio. L’albero viveva solitario su una sponda del lago, sovrastando una lontana foresta di Betulle situata più in basso. Il Larice aveva scelto di vivere la sua esistenza al limite del mondo, anche se spesso si era trovato a socializzare con i cugini Abeti, ma sempre in foreste rade e luminose.
Quest’albero proteso nell’abisso, faceva la guardia a orridi vertiginosi, solo lui sopravviveva nel vuoto dei baratri che lasciano giorno e notte senza respiro. Pagava il prezzo della sua scelta con la sofferenza delle tempeste urlanti, delle scariche tonanti di rocce instabili, delle valanghe che si abbattevano come scuri affilate, dello scarso nutrimento aggrappato in pochi grammi di terra e della solitudine infinita dei secoli. Aveva deciso di vivere in quel posto, lo aveva scelto con cura, conosceva i molti pericoli e le poche certezze, perciò si affidava a solide radici che con un abbraccio saldavano terra e rocce in un unico elemento.
Il suo fusto diritto era fiero di essere l’unico albero che può vivere cosi in alto, i rami si allungavano diritti poiché non avevano alcun timore di sporgersi nel vuoto. Lui era il creativo della grande famiglia delle Conifere, si distingueva perciò dalla normalità di una vita mediocre, era il solo che d’autunno dava spettacolo da fiaba sulle pareti inaccessibili. Nessuno lo notava nemmeno d’inverno quando la sua chioma si alleggeriva silenziosamente con una pioggerellina leggera di aghi dorati, o a primavera quando invece puntuale giungeva lo spettacolo di mille rose di aghi verde pastello. Quest’albero era energia pura, la sua carne a lungo temprata dagli eventi era immortale, poteva far conoscere all’acqua del lago la sua leggendaria ostinazione, diventando solido guscio di galeoni e corvette, prezioso tesoro sommerso per insolite traversate. Nel suo inverno spesso il Larice era ricoperto di neve e guardava silenzioso la distesa ghiacciata del lago, i suoi rami spogli resistevano alle intemperie con forza e determinazione ed erano d’esempio per tutto il mondo vegetale.
Una di quelle mattine grigie e gelide in cui il respiro si ghiaccia istantaneamente nell’aria, il Larice osservava distratto le luci dell’abitato. Una slitta trainata da due cani dal pelo folto e argentato si fermò proprio sotto di lui. Una bimba deliziosa accompagnata da una donna bella come una dea, scesero dalla slitta e osservarono l’albero. La bimba si mise ad accarezzare i suoi rami innevati e a far scivolare al suolo farina di neve. Il Larice s’inchinò per salutare le due donne e sorrise allargando i suoi rami. La donna rimase affascinata da quel delicato movimento e passò la sua mano calda sul ramo più basso. Improvvisamente la neve si sciolse e sul Larice crebbero vertiginosamente gli aghi della sua chioma, di un verde brillante che accese di luce il limitare della foresta.
La donna si sentì stregata dalla bellezza di quella pianta e non seppe allontanarsi da quella magia. Nel suo fusto vedeva nascosto un tesoro, nella sua resina pura percepiva un’energia d’amore per rinnovarsi e purificarsi. Pensava a quell’albero che una volta vecchio non sarebbe stato usato per il fuoco, ma invece per farne assi, tavole, mobili, panche, letti, e, in altre plaghe dove ancora l’antica sapienza è un valore, sarebbe certo stato usato per costruire case dalle fondamenta al tetto.
Soltanto lì una donna illuminata poteva sentirsi al sicuro, le calde assi del Larice si sarebbero abbracciate l’una con l’altra respirando lentamente dalle venature aromatiche essenze. Il Larice poteva essere il riparo perfetto per filtrare e assorbire sia le tensioni umane che degli elementi, il tempio di pace per sfidare inalterato i secoli e i millenni. La donna non avrebbe mancato di abbellire il suo giardino piantando Larici: al tempo della mietitura avrebbe trovato riposo sotto la sua ombra, e quando il sole sarebbe stato troppo basso sull’orizzonte avrebbe, al sicuro nel suo riparo, gioito dell’ultimo raggio. Avrebbe guardato il grande e solitario Larice d’inverno stendere ai suoi piedi la calda coperta di morbidi aghi, offrendo gratuitamente riposo notturno agli infreddoliti abitanti della foresta: così il capriolo, il cervo oppure il camoscio avrebbero avuto particolare riguardo delle delicate gemme primaverili.
Mentre la donna era assorta in questi pensieri, completamente assorbita dalla forza, dalla vitalità e dal calore del Larice, gli volle così bene che i suoi arti si protesero per abbracciarlo. In quel momento i rami del Larice si intrecciarono alle braccia della donna, il suo fusto si fuse con il suo bel corpo e le gambe di lei si attorcigliarono con le sue profonde radici. La bimba vide sparire il corpo di sua madre nel groviglio di rami e germogli di quello splendido Larice. Si sentì disperata e sola e urlò alla notte tutto il suo dolore. Allora il Larice si inchinò, con il suo ramo più tenero la prese su di sé, la mise fra i suoi rami e l’abbracciò con tutta la sua essenza. La bimba divenne germogli di primavera e una luce inconsueta si diffuse sul paese. Quella luce illuminò il ghiaccio del lago e venne riflessa sulla luna. Un canto maestoso attraversò ogni elemento e si diffuse per tutto il Creato.
Il Larice distese i suoi rami, si stiracchiò dolcemente e si risvegliò dal suo lungo sonno, ed ecco perché sotto i suoi rami, da quel momento in poi e per tutti gli inverni del mondo, nessuno vide mai più congelata quella parte del lago. La slitta con i suoi splendidi cani si mosse quel giorno in direzione di un nuovo destino.