Ho visto il documentario L'insolito ignoto - Vita acrobatica di Tiberio Murgia, prodotto dal giornalista e critico cinematografico Sergio Naitza di Cagliari. Il filmato si occupa di quel personaggio dal volto imperturbabile e altero di siciliano geloso e sciupafemmine che diventa una presenza fissa della commedia italiana dal 1957 in poi.
Il piccolo sardo, nato ad Oristano il 5 febbraio 1929 e morto a Tolfa il 20 agosto 2010, esordisce nel ruolo di Ferribotte nel film I soliti ignoti, trasformandosi per il grande pubblico nello stereotipo del siciliano irascibile e focoso che lo accompagnerà per circa 40 anni. L’attore è celebre per la sua straordinaria mimica facciale, per quegli occhi socchiusi rivolti sempre in alto, per le sopracciglia nerissime, folte e arcuate, per quel vezzo di piegare il capo leggermente all’indietro a indicare la diffidenza e l’ostinazione della sicilianità. Tiberio Murgia, in realtà, non sa una parola di siciliano, viene sempre doppiato con cadenza sicula da attori quali Renato Cominetti, Ignazio Alsamo e Michele Gammino. Forse però quella diffidenza e ostinazione di cui si fa portavoce è tipica degli isolani e lui riesce a dargli voce attraverso le pieghe della sua anima sarda.
Murgia rimane fedele al personaggio, allo stereotipo caricaturale del siciliano, attraversando i principali generi popolari del nostro cinema recente. Il suo successo è assicurato da una straordinaria presenza scenica, dalla capacità di suscitare ilarità con un solo sguardo o con un movimento di quel suo corpo mummificato nel ruolo e dall’abilità nei piani d’ascolto. Proprio per questi talenti era stato scelto da Monicelli quasi come un “falso d’autore”, anche se non aveva frequentato scuole di recitazione e accademie, forte, però, di quel suo sguardo strano e irripetibile.
Il documentario di Naitza svela un dettaglio del destino di Tiberio che ne determina il cammino: un chirurgo gli propone un’operazione agli occhi per eliminare il difetto dello sguardo - gratuitamente vista la condizione economica non agiata di Tiberio, - e lui si rifiuta. Ha intenzione di continuare a guardare all’indomani, con lo sguardo rivolto al futuro che lo attende nella capitale. Tiberio non è fatto per fare l’operaio e nemmeno il lavapiatti - anche se spesso questi ruoli li interpreta sullo schermo -, lui ama piuttosto la dolce vita, le donne, le macchine eleganti, il mutamento perenne della scena. Nella vita, invece, fa giganteggiare la sua immagine di operaio raccontando qualche piccola bugia. Come quando narra di essere stato espulso dal Partito Comunista - in cui militava con il ruolo di segretario dei Giovani Comunisti -, per aver intrattenuto una relazione con una compagna di partito pur essendosi appena sposato. O come quando dice di essere emigrato in Belgio nel grande centro carbonifero di Marcinelle per fare il minatore, di aver stabilito una relazione sentimentale con la moglie di un collega belga e di essere scampato rocambolescamente alla morte quella notte fatale del disastro di Marcinelle - nel quale un'esplosione di gas uccise tutti i minatori del suo turno, compreso il marito della signora -, fingendosi malato per potersi intrattenere con la donna.
A furia di raccontare questi fatti, totalmente smentiti da amici e familiari, Tiberio si deve essere convinto che fossero veri, incapace di discernere ormai tra i fatti reali e i suoi disegni immaginari. La vita nuda e cruda come era stata prima del suo successo, è qualcosa di molto lontano, la quotidianità lo affligge, ci si trova come di passaggio, poi sgattaiola via verso un’avventura, una macchina più costosa, una donna più affascinante, una rocambolesca bravata da personaggio dello schermo. Come può vivere normalmente, del resto, uno che ha lavorato con tanti mostri sacri? Con i più grandi: Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Nino Manfredi, Totò, Monica Vitti, Claudia Cardinale, Vittorio De Sica, Peter Sellers, Adriano Celentano, Peppino De Filippo, Lando Buzzanca, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, Nanni Loy e tanti altri.
“Forse accumuliamo relazioni per evitare i rischi dell'amore, come se la 'quantità' ci rendesse immuni dell'esclusività dolorosa dei rapporti”, infatti, come sostiene Zygmunt Bauman: "È così. Quando ciò che ci circonda diventa incerto, l'illusione di avere tante "seconde scelte", che ci ricompensino dalla sofferenza della precarietà, è invitante. Muoversi da un luogo all'altro (più promettente perché non ancora sperimentato) sembra più facile e allettante che impegnarsi in un lungo sforzo di riparazione delle imperfezioni della dimora attuale, per trasformarla in una vera e propria casa e non solo in un posto in cui vivere”.
Tiberio non si pone domande di questo genere, dopo essersi riscattato da una vita di fame e stenti, si adatta allo schema della sua maschera e la sua vita diventa una sorta di sceneggiatura da film, dando luogo, come la definisce Naitza, a “Un’esistenza da acrobata, oscillante fra bugie colossali e arte d’arrangiarsi, una figurina del povero meridione d’Italia ustionata dai neon del successo. E, soprattutto, il buffo cortocircuito di chi aveva scambiato, senza volerlo, la vita con il cinema e il cinema con la vita”.
Il documentario di Naitza svela tutti i retroscena della vita di Murgia e ne traccia una profonda analisi della personalità indagando nella sua vita attraverso interviste e materiali di archivio. Partendo da una lunga intervista a Tiberio svoltasi due mesi prima della morte – avvenuta all’età di 81 anni - nella casa di cura di Tolfa dove Murgia era ricoverato per Alzheimer, Naitza porta le testimonianze degli stessi familiari (i figli Manuela, Giampiero, Graziella e Anna; la sorella Zaira e il fratello Salvatore; la nipote Manuela), degli amici di infanzia (Carletto Atzori, Nino Manis e Giovanni Pinna), dei registi che lo hanno diretto (Mario Monicelli, Corrado Farina, Mariano Laurenti, Filippo Martinez, Paolo Todisco) di attori che lo hanno conosciuto (Lando Buzzanca, Nino Castelnuovo, Vittorio Congia, Enzo Garinei, Riccardo Garrone, Benito Urgu, Marco Leandris) e attrici che lo hanno fiancheggiato nei suoi ruoli (Claudia Cardinale, Maria Grazia Buccella, Valeria Fabrizi, Marcella Rufini, Antonella Lualdi, Giorgia Moll, Gina Rovere, Vittorina Ledda) e di altri colleghi di lavoro (Mario Maldesi, direttore di doppiaggio); con interviste anche a critici come Goffredo Fofi, Emiliano Morreale, Steve Della Casa, Marco Giusti, il tutto inframmezzato con scene dei film e trasmissioni televisive dove Murgia è protagonista.
Ne emerge un uomo irrigidito dal successo e dalla fama, incapace di dare amore, rispetto e sostentamento ai suoi cari, ma sconfinatamente indifeso e incorrotto nella sua essenza, come un bambino che interpreta il suo copione di vita senza rendersi conto che il mondo intorno a sé è cambiato, una figura umana da comprendere e amare, come emerge dalla coinvolgente testimonianza di sua figlia Manuela: “Mio padre è stato un grande egoista, ha tradito per anni mia madre, io ho cominciato a capirlo quando avevo solo 14 anni. Il suo comportamento è stato scioccante, ha reso difficile tutta la mia vita, ha messo a dura prova la mia capacità d’amare… Eppure, quando penso a mio padre, lo ricordo con un misto di tenerezza e di affetto; tenerezza per quel suo essere un eterno bambino precipitato in una scena che non gli appartiene affatto; affetto per i momenti in cui si comportava come un padre comune che ti porta ogni giorno a casa una buona brioche per colazione e ti conquista con la sua dolcezza. Eppure ha scialacquato una fortuna, è stato capace di guadagnare cifre da capogiro e di gettare via ogni sostanza con quelle sue mani bucate, lasciando le sue famiglie, i suoi figli, i suoi parenti senza nessuna risorsa… non nutro rancore nei suoi confronti, né l’ombra di una giudizio, l’ho amato così tanto che gli perdono ogni assenza e mancanza…”.
Il documentario racconta l’uomo e l’attore, quasi mezzo secolo di carriera, 155 film, un pezzo di storia del cinema italiano partendo dalla natia Sardegna, passando per il successo fino ai giorni nostri. Il personaggio di Ferribotte è la caricatura del maschilista che vede la personalità femminile secondo questo semplice scioglilingua: “Femmina piccante, prendila per amante; femmina cuciniera, prendila per mugliera”.
Vorrei chiedere, invece, a Manuela, al di là di queste semplicistiche considerazioni, come percepiva le donne in rapporto a suo padre, cosa lo affascinasse nella personalità e nel corpo femminile e quale considerazione avesse realmente Tiberio Murgia del valore di una donna: “Credo che a mio padre piacessero tutte le donne: una volta l’ho sentito dire che le donne brutte non esistono, ognuna ha una sua particolarità, qualcosa che la rende bella e tutte le parti del corpo per lui erano meravigliose. In ogni caso, mio padre l’unica donna che abbia amato davvero nella sua vita sono stata io e l’unica di cui abbia avuto un’alta considerazione è stata mia madre dalla quale non si è mai voluto allontanare, pur avendo le sue avventure! La stimava per la sua serietà e affidabilità; di lei apprezzava la semplicità e il non avere grilli per la testa nonostante fosse una donna molto bella, senza dar adito, al contrario di lui, alla benché minima motivazione di gelosia”.
Forse Tiberio è incapace di lasciarsi andare all’amore, come è prassi per gli uomini tutti d’un pezzo che lui interpreta, forse ama tutte le donne e non sa scegliere o preferire nessuna di loro e nessuna parte del loro corpo, però a chi lo vede con sua figlia Manuela – che gli somiglia tantissimo –, a chi lo guarda arrivare sul set trafelato con una brioche in mano da portare a sua figlia, resta l’immagine di un padre impeccabile, di un uomo che non dimentica mai la sua bambina e che sembra riporre nella famiglia tutta la sua attenzione. Chi può dire che in cuor suo non sia stato davvero così? La verità è relativa e come sosteneva Winston Churchill “A volte l’uomo inciampa nella verità, ma nella maggior parte dei casi si rialza e continua per la sua strada…”.