Il Mito dell’Uomo selvatico rappresenta uno degli immaginari simbolici più densi, coerenti, profondi della storia della cultura. Il “modello base” è identico in tutta Europa: uomo dai capelli lunghi, incolti come la barba, corpo nudo ricoperto di foglie, erbe o pelli animali cucite a pezze, con una clava o bastone nodoso o verga da pellegrino. E la postura? Appare nobilmente fermo, composto, gentile, il volto calmo, concentrato. Come l’Ercole boschivo è mite. Ricorda anche il Saturno nascosto in Lazio, schivo cultore della natura, o l’ortolano Priapo.
Il nostro Omo sembra irradiare un'aura sapienziale come fosse un sacro guardiano di un tesoro non visibile, nascosto sotto la scorza del suo stesso vestito o pelle, emblema di un Mistero e stessa via per penetrarlo. A Coreglia, Lucca, si racconta che l’Uomo selvatico ride quando c’è brutto tempo perché sa che poi arriverà il sereno, e viceversa piange quando c’è bel tempo perché arriverà poi il mal tempo. Di questo curioso comportamento si parla anche nei versi del Dittamondo, del 1367, di Fazio degli Uberti: “Come s’allegra e canta l’uomo salvatico / Quand’il mal tempo tempestoso vede / Sperando nello buono, ond’egli è pratico”.
Anche Matteo Maria Boiardo, nell’Orlando innamorato (Libro I, canto XXIII, ottava 6) scrive dell’Uomo selvatico in analogo tenore. La follia, quale tipico attributo dell’Uomo boscoso, riluce nel suo senso più antico, e dionisiaco, di vera numinosa sapienza, di saggezza oracolare e profetica, simile alle capacità dei centauri, inversa rispetto alla saggezza mondana, come nel Vangelo. L’apparenza discrimina fra saggi e stolti. I primi intuiscono il buono sotto l’apparenza respingente, i secondi credono violento e nemico chi invece non lo è. In analogia con i centauri l’Uomo boschivo appare testimoniato quale veste rituale in più casi di matrimoni medioevali-rinascimentali. Nel 1491, le feste per le nozze di Alfonso d’Este con Anna Sforza e di Lodovico il Moro con Beatrice d’Este si videro anche staffieri camuffati da Uomini Selvatici. Dieci anni dopo, quando Alfonso d’Este sposò in seconde nozze Lucrezia Borgia, ci furono danze di uomini selvatici che portavano corni dell’abbondanza. Apparvero alle nozze di Annibale Bentivoglio con Lucrezia d’Este.
Il suo aspetto rituale lo avvicina ancora una volta a Dioniso, ai centauri, alle figure dei profeti/sacerdoti biblici, allo stesso Cristo Sposo o Cristo risorto giardiniere visto dalla Maddalena. Nel Morgante del Pulci (V, 37-65) compare una figura analoga: tenebrosa e rude, come un novello Anteo, simile al Ciclope. Il suo bastone è di sorbo affumicato, sembra un albero di nave, vive in una selva scura sulla via verso il Sinai, in una caverna che rappresenta una via all’Ade, ha un occhio fiammante nel petto. Il sorbo è segno di rinascita, oracolare: la bacca reca una forma a stella a cinque punte. Rinaldo, assalito, si comporta come “l’argento vivo”, e il suo scontro appare una prova iniziatica. Il Selvatico unisce terra a fuoco, unità a fissazione, paziente lavoro a forza primordiale, velocità. Appare ermetico in più sensi.
Fulcanelli attira l’attenzione sul parallelismo fra l’instabilità del Mercurio e la sua follia/bizzarria, come sulla sua somiglianza con il bagatto/buffone dei tarocchi, delle corti, il mescolatore cosmico. Lo avvicina, in quanto pellegrino, al patrono dell’alchimia: San Giacomo apostolo, che ne condivide il sacro bastone, secco. La verga mistica, trasmutatoria: da Adamo a Noè, Melchisedek, Abramo, Mosè (Mosè secondo i saggi, Edmond Fleg) e, aggiungiamo noi, fino ai tre Giuseppe: Giuseppe di Giacobbe, Giuseppe custode di Gesù, e Giuseppe d’Arimatea.
Una cosa è chiara: il “parallelismo mistagogico” tale per cui l’Omo è amico della natura, se ne riveste, la sa imitare, riprodurre, ne conosce le leggi, e la natura è docile e amica verso di lui. Oltre a ciò il personaggio è figura nascosta, che si cela, che sa apparire e nascondersi, conosce i tempi e le armonie e vive nel folto dei boschi, nell’intimo cioè della aristotelica yle, dell’unica sostanza. L’Homo selvaggio riunisce in sé i quattro elementi cosmici: è simile alla Terra in quanto rude, scuro, forte, ricorda anche l’Acqua, sia in quanto la sua barba è fluente, come quella dei tritoni e delle divinità fluviali romane, segno del tempo che scorre costante, sia in quanto è lunatico, imprevedibilmente mutante come l’acquea luna, oltre a vivere nell’umidità oscura del più profondo del bosco, ma l’analogia non si ferma qui e si stende all’Aria, in quanto imprendibile, sfuggente, senza una dimora, come il camaleontico Merlino, e infine ricorda il Fuoco in quanto permaloso, combattivo, virile.
L’Omo quale Pietra vivente, filosofale, vile al mondo ma preziosa per pochi. La clava è secca e nodosa, mentre il suo corpo è erboso, scuro, umido: congiunzione degli opposti! Il corpo scuro come quello, nelle fiabe ermetiche (Alchimia della fiaba, Giuseppe Sermonti), del peloso e selvatico Giovanni o Zanni o Hans, o Robin del Bosco, Gian di Ferro, e dell’Orso/Principe scuro, che cela l’oro sotto la scorza, in Rosabianca e Rosarossa, allusione all’antimonio, o meglio al suo ossisolfuro, lo Stibio (Sb), cioè bastoncino, e l’Homo è anche Stibeus, il viandante. L’Uomo barbuto è nudo e vestito nel contempo, segno di rivelazione per gli eletti, ma specialmente è unito a se stesso. Non era nuda, coperta solo dai suoi capelli, la Maddalena nella sua grotta da mistica penitente vicino a Marsiglia? Nel suo aspetto verde (green man) ci ricorda il linguaggio dello smeraldo, allegoria di amore costante, paziente? Non è l’Arte capacità di estrarre le essenze e il profumo della vita?
Ricordiamo il Libro ermetico di Abramo l’ebreo, di cui parla Nicolas Flamel. Un Libro di rame e oro, di tenera scorza di alberi, verde e vegetale come il Re dei boschi. A un altro livello, più mitopoietico, si può assimilare a Nemrod, all’Enkidu del Gilgamesh, al Nabucodonosor folle del Libro di Daniele, a San Giovanni Battista, fino a San Francesco d’Assisi e all’Orlando folle dell’Ariosto, nudo, dionisiaco, fangoso. Il suo pelo è il fieno escatologico della Redenzione e dell’apocalittica mietitura. Come il cavaliere verde e foglioso di Gawain, nell’omonimo poema inglese trecentesco, il nostro Mito appare nel periodo teso ad arco fra gli inizi di dicembre e la fine di gennaio, fra Santa Lucia e la Candelora, tempo di Giano e dei due San Giovanni.
A livello di dettagli e varianti ricordiamo, fra gli innumerevoli, tre casi: l’Homo boschivo ligneo e trecentesco di Thiers, Puy de Dome, l’Omo selvadego quattrocentesco affrescato in una casa notarile a Sacco, in Val Gerola, vicino a Morbegno, e l’Uomo selvatico nel cinquecentesco Palazzo Besta in Teglio (So). Nel primo caso il dettaglio è una testa umana che sboccia dalla cima del bastone da traghettatore e una montagnola di sassi, che sembra un fiume pietrificato, su cui si erge la figura. Il bastone è tronco di Iesse e verga mosaica. Il volto dell’uomo peloso di Sacco (vicino a Morbegno) rivela con evidenza, negli occhi circolari e pronunciati e nelle guance scavate, i tratti del Cristo bizantino, del Volto del Sinai, dell’Uomo della Sindone. L’Uomo dei boschi quale nazireo, imitati dai Merovingi, come Sansone, o celato custode dell’Eden terrestre, ancora sigillato per i più. A Sacco compare appena dopo un affresco che ritrae la deposizione di Cristo. L’Uomo dei boschi quale Cristo sepolto nel cuore della natura.
Le tracce del nostro Uomo si intravedono pure nei racconti medioevali del Graal, nella materia di Bretagna. Non è Artù il Re Orso? Il Re che compare e che resta nascosto, il Re che era e che verrà, dalla corte vagante e itinerante? Non sono popolati i boschi dei cavalieri della Tavola di santi eremiti barbuti e di presenze misteriose, sgradevoli, ma benefiche e provvidenziali? Come la figura del carbonaio, sulla via che conduce al Castello di Artù, e la figura del traghettatore per Galvano. Parsifall vive una sua fase selvatica, analoga a una prova iniziatica, quando vaga incolto e inconsapevole per anni, smarrito, imbruttito, finché non si riconverte un Venerdì di Pasqua grazie all’incontro con un frate eremita che vive nel bosco.
Il luogo dell’Uomo boschivo è la stessa Terre Gaste? La sua tunica a pezzi è l’archetipo dello stesso Arlecchino. Simile emerge il lebbroso, lo squamoso, incroci di elementi. In molti racconti popolari l’Uomo boschivo insegna ai contadini le trasmutazioni alimentari. Sant'Onofrio in veste pelosa e boschiva compare in una chiesa dedicata a Santa Brigida in Val Brembana, e vi compare con un bastone simile al Tau di San Antonio del deserto, non a caso accanto a un Cristo piagato e deposto nel Sepolcro. Lo troviamo ancora nei Fratelli Grimm nelle fiabe L'uomo selvatico (De wilde Mann) e L'uomo di ferro (Der Eisenhans). In Jean de La Fontaine, nelle Favole, al Libro decimoprimo, VII, si racconta di un selvatico “contadino del Danubio”, simile a un orso, ma ricco di sapienza, che addirittura diventa un patrizio romano.
A livello storico le più diffuse tracce artistiche e sociali del Mito si riscontrano, in Italia, in Trentino Alto Adige. Importante è il ciclo di affreschi scoperti nell'autunno del 1972 a Castel Rodengo da Nicolò Rasmo. Si tratta di dipinti del secolo XII con la saga di Iwain, la prima parte di un poema epico di Chretién de Troyes. Qui l'uomo selvatico compare nella selva di Breziljan a Ivano e gli indica la strada per una fonte incantata. Particolarmente suggestiva la statua lignea dell'uomo selvatico posta su una casa in un crocicchio del centro cittadino di Bressanone: si evidenza una curiosa analogia con l'esempio valtellinese. Nel bellunese l'Om Selvàrec nel folklore delle maschere e delle tradizioni ha una veste tutta intrecciata con un'erba tipica, il colin, il licopodio, utilizzato dai pastori per filtrare il latte dalle impurità. L'Om Selvarec chiama la nuova stagione col portare in capo rami ingemmati e reca la fertilità alle donne, con cui balla, percuotendole con una frasca di giovane betulla, riti che ci ricordano i Lupercalia.
A proposito di riti silvani resta documentazione storica di come a Parigi, nel 1431 presso il ponticello di Saint-Denius venne realizzato un vero e proprio bosco dove Uomini e Donne Selvagge giocavano, mentre nel 1486, in occasione dell’entrata di Carlo VIII a Troyes, furono utilizzate cento libbre di canapa per gli abiti di ventiquattro Uomini Selvatici che si esibivano gettando erba di fronte al re. Enrico II, invece, nel settembre del 1548, al momento di entrare a Saint-Jeanne-de-Maurienne, ebbe la sorpresa di trovarsi di fronte a un gruppo di uomini travestiti da orso in maniera così realistica da destare meraviglia. Il gruppo scortò il re fino dentro città in una sorta di “trionfo silvestre” e i finti orsi si esibirono in danze e balzi intrattenendo il sovrano. Nel “Selvatico buono” resta la matrice che diede l’occasione di risorgere al Mito dell’Arcadia e ai giochi pastorali della corte di Versailles.
Oggi lo ricordiamo nei Mamutones sardi, nei carnevali montani di capodanno che ancora sopravvivono in vari paesini dell’Appennino italiano, e nei moltissimi mascheroni barbuti e fogliati di vari cornicioni e portoni di palazzi italiani, dove ora sorridono sornioni e ora minacciano con lo sguardo per scacciare gli avversari custodendo i segreti dei luoghi e delle persone.