L’idea di un monumento per ricordare Giovanni Verga nella sua Catania fu presentata come “voto della cittadinanza catanese” nel 1956. La voglia di essere lui, Carmelo Mendola, l’artista che avrebbe ricordato nei secoli il grande concittadino, lo prese sin dal primo momento ma il travaglio fu lungo: notoriamente, questo è un percorso classico in Sicilia, isola mummificata in quel “cambiare qualcosa per non cambiare nulla”. Ebbe tuttavia, Carmelo Mendola, la fortuna di vedere la realizzazione del suo sogno ventennale e soprattutto di goderne il successo e il riconoscimento dei concittadini, anche se la vita gli concesse, di tanto gaudio, solo qualche mese.

Come di regola, a seguito dell’idea venne bandito un concorso nazionale e vi fu una consistente partecipazione di bozzetti. La commissione, di questi, ne scelse quattro ma … a causa dell’insanabile disaccordo esistente fra i suoi componenti si dovette ricorrere a un secondo giudizio nel febbraio successivo. Le polemiche non mancarono e il verdetto fu ancora né carne né pesce con conseguente dimissione di protesta dei giurati, in fiera opposizione tra loro. Così l’idea del monumento rimase nel limbo delle cose che potevano essere e che non erano state [1].

La storia, dopo, diventò contorta ma … preferisco partire dalla fine che, per me, inizia con una lettera inviatami dalla figlia Ileana in data 21 febbraio 1976:

Caro dott. Vicario, la ringrazio per le sue ispirate ed affettuose parole che mi hanno dato l’esatta cognizione di quanta simpatia e quanta ammirazione suscitava Papà nelle persone che lo avvicinavano. Purtroppo non servono a consolarmi … ma a non sentirmi sola in questo momento di struggente rimpianto. Sul tavolo di Papà abbiamo trovato un foglio in cui era iniziata una lettera indirizzata a Lei. Mi perdoni se non mi sento di inviarle altro che la copia fotostatica. Forse è stata l’ultima volta che Papà ha usato la penna e mi costa troppo privarmene. Papà le descrive l’ultimo lavoro che stava eseguendo … con giovanile entusiasmo. La triste realtà è un lavoro complesso e potente … incompiuto. A Elena e a Lei i più cari e affettuosi saluti, Ileana.

La lettera, a me indirizzata e incompiuta, la figlia me la commentava come l’ultimo lavoro del padre, programmato “con giovanile entusiasmo”: era scritta infatti di getto e con affrettate correzioni, mentre correva sul calendario della sua vita l’ottantunesimo anno di età:

Io lavoro sempre con foga giovanile giacché il mio potenziale creativo non si è ancora esaurito. L’ultima creazione ha per titolo: “Connubi …”* [2] . Credo risulterà interessante. Sono due esseri, che chiamerei Mostri per la loro composizione somatologica, che si accoppiano abbracciati freneticamente. I caratteri morfologici sono ricercati intuitivamente fra le sembianze di esseri inesistenti [3] ma che aiutano alla formazione dell’oggetto che infine risulta irreale e assurdo se non nelle esigenze estetiche ed architettonicamente compositive. È un genere di scultura da discutere che va [4] *contro la tradizione. Insomma è una tendenza che permette spaziare nel vasto campo della creazione prelevando qua e là elementi eterogenei ma necessari alle esigenze del momento creativo di personaggi. La strada è difficile, irta di incognite, direi sconcertante ma che può appagare gli impulsi all’atto di una composizione fantastica. Mi diverto e così non trovo posto per l’ozio che per me è parola vuota ed uno stato inconcepibile… [5].

Questo scritto di pugno di Carmelo Mendola mi porta a comprendere il suo percorso artistico e mi esime dal parlare per esteso di tutta la sua produzione: ampiamente nota infatti è la sua bibliografia [6]. La sua Nike - posta nella baia di Giardini Naxos, dove i greci, Calcidesi dell’Eubea, giunsero guidati da Teoche e ne costituirono la prima colonia - colpì favorevolmente le autorità elleniche presenti alla cerimonia della “ricorrenza del 2700° anniversario dello sbarco dei calcidesi”. La statua, macroscopica filigrana, si inserisce suggestiva nel quadro della baia: “il vento nei giorni burrascosi, passando attraverso la mirabile trama del metallo, canterà gl’inni della terra sicula agli Dei dell’antica Ellade” [7].

Pure la sua “casa-museo” è un unicum. “Nei vasti saloni interni si susseguono la Grande e la Piccola Galleria ove sono allineate per terra, sospese nell’aria o giacenti nei loro solchi sculture di varie epoche, e sulle pareti pitture, tempere, acqueforti, disegni i quali ritracciano, via via, l’attività artistica di Carmelo Mendola, dal 1936 a oggi: sequenza di stili, motivi, soggetti che mettono in evidenza le varie tappe di una evoluzione legata alle dominanti estetiche più avanzate del nostro tempo” [8]. E poi la Fontana dei Malavoglia, la sua creatura di sette tonnellate di peso, di tre metri di altezza, poggiata su una vasca più piccola che simula il mare in tempesta, dalla quale i flutti si frangono e precipitano nella sottostante vasca grande. Lì, superbamente tragico, ‘Ntoni, il giovane dei Malavoglia, nella furia della natura scatenata, domina, con il suo urlo disperato, la scena della “Provvidenza” non più in grado di condurlo in salvo [9].

Carmelo Mendola, personalmente invece, con quella lettera incompiuta [10], mi costringe a sviluppare considerazioni genetiche ereditarie che già in passato mi hanno obbligato a meditare sia sulla sua folgorazione culturale che sul suo percorso artistico. Egli visse l’intero suo percorso artistico in anni nei quali l’arte fu fascista in una nazione fascista per giungere all’arte povera degli anni Sessanta, passando per l’astrattismo e il realismo degli anni 1949-1958 e all’arte cinevisuale [11] del 1961. All’inizio ebbe davvero vita dura, non forse per malevolenza ma perché non era comprensibile ai più quella strana presenza di un soggetto prima e sempre dedito al commercio, nella nuova veste di “artista”. Taluni circoli gliela fecero pesare sulle spalle per anni come etichetta di dilettante perché il mite don Carmelino era autodidatta [12].

Furono anni duri comunque non solo per lui. Nel lungo tempo nel quale Mendola estrinsecò la sua parabola lavorativa, *molti artisti giovani entrarono in crisi e cessarono di produrre arte. Alcuni cambiarono mestiere. Quelli che continuarono non produssero nulla di nuovo. Altri si chiusero in se stessi e si isolarono nei loro studi, rifiutando ogni partecipazione situazionale. A partire dal 1971-72 si entrò addirittura in una fase di assenza o di clandestinità artistica che si prolungò per tutto il decennio [13] .

A cominciare dagli anni Settanta poi e per qualche decennio ancora il panorama dell’arte, in tutto il mondo, fu contrassegnato dal netto rifiuto dei linguaggi tradizionali e dal prevalere dei mezzi extra artistici: la fotografia, il video, la scrittura, l’intervento sulla natura, sul corpo, ecc. Il concettualismo costituiva l’elemento unificante delle differenti linee di ricerca; sembrava più importante riflettere sul concetto stesso di arte - metterne in dubbio la legittimità, contestarne il senso – piuttosto che produrre effettivamente delle opere [14].

Fu in questo deserto culturale, quindi, che nacque e si realizzò la vita artistica di Carmelo Mendola. Fu pure in questa sua difficile stagione che si risolse a progettare e a edificare in proprio - “improvvisandosi” dunque architetto e ingegnere così come vent’anni innanzi si era “improvvisato” scultore – una dimora che fosse, in uno, espressione del suo patriarcale concetto della famiglia e tempio dove disporre e custodire la propria opera [15].

Questo fu il suo percorso culturale. Nel saggio introduttivo però Luciano Budigna lanciò un altro messaggio:

Nessuno degli esegeti dell’opera mendoliana ha mancato di soffermarsi sul momento iniziale, relativamente tardivo, della concreta manifestazione plastica nell’artista catanese: e, per la verità, sarebbe fatto di per sé già abbastanza singolare che un uomo dell’età di quarant’anni, del tutto digiuno di studi accademici e di precedenti esperienze tecniche, si «improvvisasse», per dir così, scultore: cioè operatore di una delle più ardue forme di espressione creativa. […] I cultori di scienze esoteriche, gli esperti di metapsichica ma anche gli psicologi più illuminati e avveduti sanno [però] che non sia raro il caso di persone che all’improvviso … comincino a parlare e a scrivere, perfettamente e correntemente, in una lingua antica … ad essi sino a quel momento perfettamente sconosciuta [16].

Il messaggio del Budigna non mi lasciò sordo; per questo voglio qui supportarlo con la mia stessa inspiegabile (?) esperienza. Quanto accadde a Carmelo Mendola all’età di quarant’anni, a me piovve addosso a quattordici. Voglio riportarlo come testimonianza affinché non si bolli il tutto come ‘ciarle esoteriche senza fondamento scientifico’:

Nel 1938 mio padre - contadino - mi mandò a sostenere gli esami di ammissione al ginnasio. Mi diedero un tema sulla “utilità dell'acqua”. Scrissi 12 o 13 righe di vere e proprie corbellerie tanto che solo a ricordarlo divento rosso ancora oggi. Mi rimandarono a settembre e qui mi diedero l'ammissione che comunque non mi servì subito perché andai a studiare in un collegio privato di Rogazionisti, ove rimasi per quattro anni. Ricordo che ero ormai al termine del 4° anno del ginnasio, proprio nel tempo della pubertà e stavamo svolgendo in classe per il corso d’inglese il commento, al termine della traduzione svolta nell’anno scolastico, de* Il vicario di Wakefield (1766) dell’irlandese Oliver Goldsmith. Sino a quel momento nei quattro anni di studio riuscivo a progredire davvero a stento. In latino ero una frana, il povero italiano era quello di un siciliano che scriveva traducendo dal dialetto. Quel mattino il professore ci comunicò che avrebbe dato da commentare in classe, quindi senza preavviso, il lavoro su Goldsmith. Ricevuto l’usuale foglio protocollo, nella mia mente sentii un click: “sentii” di aver compreso tutto. Scrissi un saggio come sotto dettatura, non mi fu sufficiente il foglio protocollo avuto in dotazione [17] e ne chiesi al docente un secondo del quale ne riempii altre tre pagine. Il professore, con somma meraviglia, lo lesse in classe nell’ultima ora di lezione. Sono del parere che in quel momento sia riemersa in me l'esperienza delle mie vite precedenti [18]. *Non mi illudo di convincere nessuno: è un'idea “altra” della conoscenza, molto dura da accettare. Comunque una cosa è certa: quel fatto rivoluzionò la mia vita [19].

Pure Carmelo Mendola ebbe la vita rivoluzionata da un episodio simile e ancora al termine della sua vita mi scrisse in quella sua ultima lettera: È un genere di scultura da discutere che va contro la tradizione. Insomma è una tendenza che permette spaziare nel vasto campo della creazione. A 81 anni Carmelo Mendola ancora creava!

A dieci anni dalla morte Giuseppe Consoli lo ricordò con queste parole:

L'aver potuto concludere la sua giornata terrena, compiacendosi di vedere, finalmente realizzata* [la Fontana dei Malavoglia] *in tutto il suo magico effetto ambientale, come uno dei rari luoghi di sosta nel trambusto urbano, quell'opera che egli aveva compiuto con le sue mani, avendone calcolati tutti i giochi d'acqua e di luci con accurata ricerca dei materiali e dei meccanismi più adeguati, in frequenti escursioni nelle sedi tecniche specializzate, senza risparmio di mezzi e di energie, è stato quasi il premio che Carmelo Mendola si era meritato dalla vita [20].

Note:
[1] Massimo Caporlingua, Catania: Verga ha un monumento, Il Tempo, 28 ottobre 1975, p. 3.
[2] “Connubi” è sicuro ma era seguito da “nello Spazio” poi cancellato con tratto di penna e sostituito con “terrestre”, quindi pensò a “Connubio terrestre”, comunque indeciso.
[3] Di getto aveva scritto (e cancellato con tratto di penna) ‘eterogeni’.
[4] La parola non è interpretabile ma vuol dire che “va” …
[5] Qui la lettera si arresta.
[6] Ampia e dettagliata bibliografia in Luciano Budigna, Carmelo Mendola scultore, Milano 1969, pp. XXXV-XLVIII; Massimo Caporlingua, cit.; Salvatore Nicolosi, È morto Carmelo Mendola lo scultore dei «Malavoglia», La Sicilia, 9 febbraio 1976, p. 17.
[7] Antonio Corsaro, La Nike di Mendola nella baia di Giardini Naxos, Gemellaggio Giardini Naxos-Calcide Eubea, brossura 1966.
[8] Guido Marinelli, La casa-museo, in Budigna, cit., pp. XLIV.
[9] Salvatore G. Vicario, La fontana dei Malavoglia, Fascina, Roma 1990, pp. 98-100.
[10] La lettera fu redatta nel 1976 nel pieno del suo fermento artistico.
[11] Giorgio De Marchis, L’arte in Italia dopo la seconda guerra mondiale, Storia dell’arte italiana, vol. 7, ed. Einaudi, Torino 1982, pp. 616-617.
[12] Nicolosi, cit.
[13] De Marchis, cit., p. 625.
[14] Stefano Fugazza, Dal Settanta ad oggi, Storia dell’arte italiana, vol. IV, Electa-Bruno Mondadori ed., Venezia 1986, p. 324.
[15] Budigna, cit., p. XII.
[16] Id., cit., p. VIII.
[17] Al tempo si scriveva su mezzo foglio per consentire al docente di porre nell’altro mezzo le sue correzioni.
[18] Vicario, La ricerca della via, La preparazione globale al parto, Marrapese ed., Roma 1993, pp. 153-155.
[19] Id., Ciarle di un vecchio medico curioso, Edizioni Agemina, Firenze 1913, pp. 8-9.
[20] Giuseppe Consoli, Il Cellini dell'acqua, ricordo dello storico in occasione del 10° anniversario della scomparsa di Carmelo Mendola.