Mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch'io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l'altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli …
E tentò di divincolarsi. Corse in cucina, afferrò un coltello, glielo puntò contro, ma il suo aggressore era più forte di lei. E lo stupro fu inevitabile. Non aveva che quindici anni. E lui era il suo maestro. Doveva insegnarle la tecnica di dipingere prospettive. Dunque, si fidava di quell’uomo. Non avrebbe mai immaginato che potesse approfittare di lei. Eppure avvenne.
Artemisia, nata a Roma l'8 luglio 1593, primogenita di sei figli maschi e orfana di madre, era la figlia del famoso pittore caravaggista Orazio Gentileschi. Sedotta dalla maestria pittorica del padre, scelse l’arte come sua strada già in età precoce. Aveva soltanto dodici anni quando iniziò a trascorrere intere giornate nell’atelier paterno. E nel 1616 fu la prima donna a iscriversi all’Accademia del Disegno di Firenze. Orazio accolse immediatamente la vocazione della propria figlia. La allevò alla pittura e le permise di affinare il suo talento portandola con sé persino sui cantieri delle ville romane, dove fu chiamato a realizzare strabilianti affreschi a tema mitologico, religioso o celebrativo. Erano gli anni delle celebri scene tratte dalla Metamorfosi di Ovidio che Annibale Carracci andava dipingendo sulla volta della galleria di Palazzo Farnese, e delle grandi tele che il tenebroso naturalista Michelangelo Caravaggio realizzava per le Chiese di Santa Maria del Popolo e San Luigi dei Francesi.
Ed erano anche gli anni in cui andava diffondendosi il gusto del Quadraturismo, genere illusionistico con cui pittori come Andrea Pozzo o Pietro Da Cortona – abili conoscitori delle più raffinate regole prospettiche –, “sfondavano” soffitti e pareti, moltiplicando illusionisticamente gli spazi. In quella Roma post-tridentina – in cui nuove scoperte scientifiche decentravano l’uomo rinascimentale e la teatrale luce caravaggesca andava scovando uomini e santi, tra le maglie delle tenebre –, una bambina non ancora donna, dalle forme floride e dal carattere deciso, sperimentava il miracolo del colore con i pennelli di suo padre. Ma la pittura non era un mestiere adatto a una donna. Soprattutto, poi, se la portava a frequentare ambienti prioritariamente maschili. Le malelingue non tardarono a parlare: “È una puttana… prostituita dal suo stesso padre… ”, diceva qualcuno.
Il popolo mormorava di come l’avvenente e prosperosa adolescente posasse sovente e senza vergogna, per i nudi a figura intera dipinti da Orazio. C’era chi addirittura riteneva che durante le sessioni di posa lui invitasse alcuni amici a godersi lo spettacolo. E per i maldicenti Agostino Tassi non era che uno di essi. Ma per Orazio lui era un ottimo pittore, una persona a modo. Per questo le affidò sua figlia. Un’adolescente ancora vergine. Non avrebbe mai immaginato che lui potesse abusarne. E invece…
E invece, lo stupro avvenne. E avvenne in una piovosa giornata del 1611. Agostino si recò da lei, nella sua casa in via della Croce a Roma. La colse tutta concentrata sulla sua tela. Artemisia stava dipingendo. Gli occhi sprofondati tra ordito e trama. Stringeva in mano una tavolozza, quando lui varcò la soglia e tacitamente le si avvicinò. In un attimo la tavolozza volò via. Gliela strappò di mano. Poi la fece alzare dal suo sgabello, invitandola a fare due passi per sgranchirsi le gambe. Ma questo insolito modo di fare la allarmò. Agostino non aveva mai avuto quei modi. Artemisia si spaventò. Finse un capogiro. Ma lui non le credette e, anzi, la trascinò in camera, la spinge sul letto, le infilò un ginocchio tra le gambe… e si spinse sopra di lei.
Dopo l’accaduto, Artemisia corse da suo padre per raccontargli ogni cosa. E questi, adirato, la convinse a denunciare il Tassi. In tribunale, però, non le diedero ascolto. Vollero, anzi, costringerla a ritirare la denuncia, e per far questo la sottoposero a ignobili torture. Tra le più truci, lo schiacciamento dei pollici. Artemisia sopportò il dolore e l’umiliazione, ma non negò mai quanto aveva dichiarato. Agostino venne condannato a 5 anni di esilio, ma grazie all’intervento di alcuni suoi mecenati ottenne una riduzione della pena, che oltretutto non inficiò minimamente la sua fama di artista. Artemisia, invece, ne uscì doppiamente sconfitta. E per tutta la vita covò un insaziato desiderio di rivalsa, che tradusse in alcune sue opere. Subito dopo il processo, a soli 16 anni, sposò il pittore toscano Pier Antonio Stiattesi e si trasferì a Firenze, dove oltre a dipingere la celebre scena di Giuditta che taglia la testa a Oloferne, iniziò a lavorare su committenza granducale. Diventò madre per quattro volte, ma negli anni perse due figli. La morte di Cristofano, di soli 5 anni, ad esempio, la fece sprofondare in una buia depressione. Solo Prudenzia, la terzogenita, raggiunse la maggiore età, riuscendo a seguirla nei suoi trasferimenti successivi, prima a Roma e poi a Napoli.
È del 1612 la prima versione di Giuditta che decapita Oloferne, opera attualmente conservata al Museo Nazionale di Capodimonte. Qui, il dolore e la rabbia vissuti e trattenuti, vengono sublimati dal gesto creativo. L’opera tutta, letta e interpretata in chiave psicanalitica, è infatti considerata una vera e propria traduzione pittorica della violenza subita dal Tassi e della sofferenza che questo generò in lei. La luce caravaggesca, già adottata dal padre, entra subito a far parte della maniera pittorica di Artemisia. La spietata crudezza della decapitazione viene, infatti, sottolineata da una luce potente. Con la mano sinistra, l’eroina biblica Giuditta immobilizza la testa di Oloferne, mentre con la mano destra impugna la spada che sta per decapitarlo. Lo sguardo di lei, avvenente vedova israelita, è fisso e feroce sul volto del generale assiro. Giuditta sta per salvare Israele. È riuscita a irretire Oloferne, raccontandogli di poter avere la rivelazione dei peccati del suo popolo a causa dei quali Dio lo darà in mano al nemico. Il generale le crede, si lascia convincere e sedurre. E una sera la invita al suo banchetto, illudendosi anche di poterla possedere. Ma lei lo fa ubriacare. Gli sottrae la scimitarra e lo colpisce due volte al collo ripetendo «Dammi forza, Signore Dio d'Israele, in questo momento». L’elemento che differisce dal racconto biblico è la presenza di una seconda figura femminile sulla scena. Si tratta di un’ancella cui Giuditta chiede supporto, ma che non è citata nella narrazione. Il volto di lei ha un’espressione inamovibile. Senza pietà. La crudezza di questa rappresentazione si parafrasa nelle parole di Roberto Longhi: “Ma – vien la voglia di dire –, ma questa è la donna terribile! Una donna ha dipinto tutto questo?”
Artemisia dipinse tutto questo. E anche altro. Tradusse ancora iconograficamente la sua rabbia nella trasposizione pittorica di Giaele e Sisara, datata 1620. Qui l’audace Giaele sferra con massima forza e raziocinio, il colpo di picchetto al generale cananeo Sisara, dopo averlo invitato nella propria tenda. La teatralità della scena è data dal fondo buio e dall’improvvisa accensione dei gialli e dei blu di lapislazzulo. Giaele è in ginocchio, saldamente piantata a terra. “La maschia Giaele”, come la definì Alessandro Manzoni. Con il viso calmo e il braccio alzato, pronto a sferrare il colpo. Nello stesso anno realizzò una seconda versione della decapitazione di Oloferne da parte di Giuditta, oggi esposta agli Uffizi di Firenze. Pare che per la sua drammaticità e spietatezza, Cosimo II De’ Medici decise di confinarla in un angolo nascosto di Palazzo Pitti.
Acclamata presso le corti, del Viceré di Napoli e di Re Carlo I di Inghilterra, Artemisia fu, sempre a detta del Longhi, “l’unica donna in Italia che abbia mai saputo cosa sia pittura, e colore, e impasto, e simili essenzialità; da non confondere adunque con la serie sbiadita delle celebri pittrici italiane…”.