In un solo istante
ottantamila porte sono create,
in un solo istante
il tempo eterno è compiuto.
(Shodoka, Il canto del risveglio immediato)
I Greci usavano il termine enthousiasmòs per indicare l’ardore immaginifico, lo stato di grazia, l’attimo di intensità che preludeva all’estasi. L’avere al proprio interno il respiro del dio consentiva l’uscita da se stessi, l’abbandono dei legami troppo umani così da poter raggiungere la visione perfetta, l’attimo in cui tutto è già presente allo stato potenziale.
Noi abbiamo perduto il valore profondo di questa parola intrisa di spiritualità generante eppure c’è un territorio dello spirito nel quale l’intuizione dell’ingegno fa tutt’uno con il sublime e così il gesto che imprime sulla materia il segno del cuore diviene rito e l’artefice si fa ierofante, ministro di un culto nel quale mistero e sapienza si uniscono nel gàmos hieròs, nel “sacro sposalizio” di mente e cuore.
Ciò accade con ogni genere di materia sia essa pietra, colore o parola, sia suono o corpo danzante: l’intenzione che plasma e trasforma, che infonde vita, ha in sé la potenza di un magico rituale capace di rendere visibile ciò che sta nascosto nei reconditi anfratti del sapere ancestrale.
Allora l’arte diventa invocazione, ritrova le radici prime della parola come segno del divino e diviene inscindibile il legame fra la sacralità e la creazione artistica.
L’opera pittorica di Lucio Maria Morra si muove in quel territorio, si nutre di quella “divina ispirazione”, si compie attraverso un’attitudine di pensiero e di visione, che è disponibilità a lasciarsi attraversare, che è fiducia nella forza creatrice.
Le si adatta l’appellativo di “sacra” poiché nasce da un potente rito: al principio c’è il silenzio, l’attesa che medita, e poi l’energia ruota nei vortici di colori gettati quasi come materia organica sulle tele a creare universi che hanno un’armonia ma non un ordine fissato poiché tutto è mutamento, tutto si muove. Come in una danza libera, la vita scorre sulle tele a trovare le ragioni del proprio essere nel rimescolarsi di quella materia che si carica di valenza simbolica: rosso che sgorga come sangue dalle ferite della Terra; verde che si distende come respiro della Natura, acqua che si mischia nell’azzurro come fiume che scorre e intreccia la sua forza con il colore di squarci di cielo. Giallo che esplode come alimento, potente e luminoso, capace di far nascere; bianco che benedice e trasforma.
Su questi mondi fluttuanti vanno ad imprimersi, unica solida presenza, le parole che si stagliano ieratiche, immobili come pilastri di un tempio pronte a sostenere il moto delle passioni, l’andare e ritornare delle esistenze nell’eterno ciclo di morte e nascita.
Chiedo all’Artista che cosa dicono queste parole.
Vengono da antichi testi sapienziali, primo fra tutti l’I King di cui sono studioso appassionato da quarant’anni. È “Il libro dei mutamenti”, fondamento del pensiero cinese a monte del confucianesimo e del taoismo, utilizzato come oracolo da oltre duemila anni. Una rappresentazione dinamica della realtà in cui la vera conoscenza emerge dalle leggi che governano la costante trasformazione.
E poi ci sono i versi poetici tratti dallo Shodoka Il canto del risveglio immediato un testo costituito di circa duemila ideogrammi opera del maestro cinese Yongjia Xuanjue (665-713) assimilato dalla tradizione Zen giapponese con il nome di Yoka Daishi. Versi come questi:
*La luna brilla sull’acqua del fiume,
il vento soffia tra i pini.
Fresca e pura ombra di una lunga notte.
Quale ne è la causa?
Quelle impresse sulle tele sono parole significanti, parole che rimandano ad una visione del vivere oltre che del fare arte: autenticità, versatilità, rigore, abilità, abnegazione, operosità, accuratezza, profondità, poeticità, consapevolezza, impermanenza, mutevolezza, molteplicità. Sono segni/semi lasciati per compiere il cammino verso il silenzio, per trovare il perdono, per pregare, per entrare nel dolore, per non dimenticare di amare.
Il sapere e il fare dell’artista si impastano e cercano la propria forma nell’incontro. E c’è una sorta di magia in questo amalgama che rimanda al procedimento di trasformazione degli elementi ad opera degli alchimisti.
Lucio Maria Morra è un matematico puro che ha portato nelle sue opere il sublime mistero del pensiero che astrae lo spirito dalla materia per riversarlo poi in essa come soffio che la rianima, ma è anche monaco della tradizione Zen Sōtō che, attraverso la pratica quotidiana dell’arte, percorre la sua vita di spiritualità nell’esercizio del silenzio e dell’ascolto.
Il connubio tra sapienza e immaginazione, tra interiorità ed esternità che percorre tutte le sue opere gli viene certo anche da un’altra arte nella quale è maestro indiscusso e che è stata per me una vera scoperta: intendo parlare della gnomonica ovvero l’arte di costruire le meridiane, un universo di significati e curiosità che esploro attraverso il suo racconto.
Prima di tutto parliamo dell’etimologia.
Il nome deriva da gnomone lo stilo che produce l’ombra sul quadrante e che rimanda alla gnome la "conoscenza". La meridiana è una porta sul cielo e lo gnomone il suo cardine, il fulcro di una terna archetipica: l’ombra rappresenta l’effimero mondo fisico, il sole la luminosa eternità dello spirito e lo gnomone l’intelligenza dell’uomo che permette di cogliere le priorità della luce nell’andamento dell’ombra.
La simbologia è davvero affascinante, ma ho l’impressione che sia un lavoro che richiede sforzo, fatica fisica Nella gnomonica convergono molte abilità. È una disciplina che ci riporta ad una visione dell’artista come eclettico, poliedrico, versato in molteplici saperi e con molte capacità tecniche, ed è anche un’arte che si propone come naturale sviluppo della scienza dalla cui esattezza non si può prescindere. Geometria, trigonometria, astronomia si fondono con la bellezza, con l’armonia delle proporzioni, con lo studio dell’architettura e l’equilibrio con i luoghi. Il mestiere di gnomonista esige vigore fisico, versatilità, dedizione ed equilibrio, concentrazione, precisione e soprattutto molta pazienza.
A dire il vero non avevo fino ad ora pensato ai quadranti solari come ad opere d’arte; li ho sempre guardati come strumenti per misurare il tempo, più o meno belli.
Ars magna lucis et umbrae “la nobile arte della luce e dell’ombra” così fu definita nel XVII secolo da Athanasius Kircher. È un’arte discreta, “minore”, ma universalmente praticata in tutte le forme di civiltà; affonda le sue radici in un passato ancestrale, che esiste fin da quando le vicende umane danzano il ritmo del sole che sorge e tramonta. Le meridiane custodiscono il senso del tempo, hanno l’estensione del cielo, sono spazi liberi e profondi, sono simboli benefici, propizi alla consapevolezza e all’integrità, pacificano l’animo di chi le frequenta ed orientano –per lo meno chi le fa costruire e chi le costruisce- nel labirinto dell’esistenza. Funzione ancor più preziosa al giorno d’oggi per comprendere l’accelerazione e lo sconcerto psicologico della vita moderna. Il quadrante della meridiana diventa proiezione di un luogo mentale nel quale si ricongiungono il mondo e la coscienza, la ragione e il sentimento. Così si crea una sorta di ponte tra esigenze della materia e tensione dello spirito. Qualcosa in noi si compiace di questo rito riconciliante ed è anche questa una ragione della lunghissima vita dei quadranti solari che ancora oggi dopo secoli continuano a suscitare stupore e meraviglia.
Ben comprendo a conclusione di questo incontro di parole la ragione per cui si è attratti dall’intensità che emana dalle opere di Lucio Maria Morra, che si donano allo sguardo che vede al di là dell’immagine e del segno, oltre il tempo e lo spazio limitati nei quali si muove la mente, al di là della ragione che vuole capire e circoscrivere.
Mondi che si dischiudono al cuore che ne percepisce il respiro, in uno stare che è raccoglimento e al tempo stesso disponibilità a farsi avvolgere.
Sono profondamente onorata di “aver cura” di questa esposizione dedicata ad un artista davvero eclettico e di aver scelto per ospitarla un luogo altrettanto ricco di suggestioni e di mistero quanto le opere che vi saranno esposte: l’antico refettorio del Chiostro di San Paolo, proprio nel cuore della città di Ferrara, raramente aperto ai visitatori che, in questa occasione saranno ammessi a condividere una preziosa scoperta, un’atmosfera densa di memorie depositate.
Per accogliere al meglio questa arte empatica, aperta a ricevere suggestioni e ad offrirne, lo spazio espositivo si farà anche “teatro”, luogo di visione e di ascolto nel quale arti differenti potranno incontrarsi e dialogare per compiere insieme il rito di omaggio al genius loci. Una esposizione come tramite di eventi nel senso puro, originario di questa parola così abusata: l’evento che è id quod cuique eveni “ciò che accade a ciascuno e per ciascuno”, in un fulmineo squarciarsi di tempo e spazio.
Shodoka si terrà nell'Antico refettorio del Chiostro di San Paolo a Ferrara, via Boccaleone 19, dal 15 al 30 Ottobre 2016.
A cura di Save the Words®