C'è una gabbia dentro ognuno di noi. Solo che c'è chi riesce a fuggirne esorcizzando le proprie paure, i propri desideri più nascosti, il proprio sé notturno e invisibile. Anzi immaginando un tracciato onirico evocativo che spazza via i pensieri e riporta tutto all'essenzialità del gesto, del fermo immagine. E questa è la dote che possiedono artisti come Barbara Pigazzi, fotografa, padovana, classe 1974 che, a partire dal suo sguardo attento sulla parte più intima delle donne, ha realizzato una mostra a Palazzo della Gran Guardia a Padova dal titolo appunto La Gabbia.
Incontrare Barbara Pigazzi significa entrare un po' nel suo mondo. Un mondo fatto di donne che lottano contro fantasmi di violenza, di sopraffazione, di un sottile gioco sadomasochistico che sfrutta la scabrosità della superficie della natura per rituffarsi nell'artificio dei materiali sintetici. Perché sì, La Gabbia parla di violenza sulle donne e molte donne si sono riconosciute negli scatti a tratti duri e diretti di Barbara. Basta leggere il libro degli ospiti che hanno visitato la mostra per decifrare un universo femminile fatto di squarci di vita nascosti dove compagni violenti fanno scempio di corpi e di anime.
Ad aprire la mostra fotografica personale di Barbara Pigazzi, curata da Enrica Feltracco e Massimiliano Sabbion che hanno scritto l'introduzione al catalogo, c'è un tributo di un amico e collega autorevole: Mustafa Sabbagh che firma La Pietà, fotografia che troneggia nella sala della Gran Guardia e che ritrae nella posa ispirata a Michelangelo, Barbara e la sua fedele modella, Elena, parte essenziale e integrante della poetica dell'artista di Piove di Sacco.
"È un dono che Mustafa ha voluto farmi – spiega Barabara Pigazzi, essenziale anche nel look ispirato alla Giovanna D'Arco di Antonin Artaud – ci ha volute così immortalate in quell'unico scatto che ha mille significati che ogni donna saprà interpretare". Barbara ha un rapporto viscerale con la religione, la sua passata mostra dal titolo La Bellezza ferita, ritraeva immagini sacre nei dettagli più attinenti al martirio e alla visione mistica. “Mustafa ha interpretato quel percorso di fede e sofferenza che avevo intrapreso e che è profondamente radicato in me. Il suo voler partire da un'opera per ricreare lo stato d'animo di un nuovo viaggio è parte della sua ricerca. Io ed Elena siamo quindi quella Pietà, così come l'ha vista Sabbagh”.
Il “diario intimo” di Barbara Pigazzi si snoda su 31 opere esposte, 31 tasselli che vanno a formare il puzzle dell'animo umano, e femminile nel particolare. I titoli delle opere sono rigorosamente in latino, Chrysalis, Seminarium, Relicta fino al provocatorio e disturbante Patibulum dove Elena, modella e assistente di Barbara, viene ritratta sulla base di una vigna nella campagna veneta legata con i lacci che si utilizzano per uccidere i conigli. La natura feroce su un corpo acerbo, legato quasi in croce, non lascia spazio alla fantasia ma riporta drammaticamente a una realtà vissuta quotidianamente dalle donne abusate e torturate. “Sono immagini, stati d'animo – prosegue Pigazzi – in cui ogni donna può ritrovarsi. L'artista mette se stesso in un quadro, in uno sguardo, dove si esprime sia in positivo che in negativo. Quegli scatti sono il frutto della mia sofferenza, delle mie notti insonni in cui l'unico modo per uscire dall'ansia era scattare. Quando sono serena scatto con meno veemenza, e spesso quegli scatti li lascio da parte per poi riprenderli al momento opportuno”.
La modella per eccellenza di Barbara Pigazzi è Elena, una ragazza di 22 anni che è musa ispiratrice, confidente imprescindibile, punto fermo nell'arte come nella vita di Barbara. “Elena vive con me da due anni, ci lega un rapporto molto profondo. Se ho potuto fare queste foto e questa mostra dove metto a nudo me stessa completamente, è merito suo. Elena è una sorta di mia estensione che mi rappresenta nelle fotografie esposte, è il mio sé che vedo dall'esterno e al quale posso far assumere qualunque posa, qualsiasi situazione anche la più difficile e complessa da immaginare”.
Gli scatti ritraggono donne che soffocano, che urlano coperte da un nylon trasparente, corpi abbandonati nella sterpaglia, sugli alberi, relitti d'amore. Queste foto assomigliano, per certi versi, a quelle che ritraggono le donne vittime di femminicidio. “Qualcuno mi ha detto di avere visto foto come queste nel proprio lavoro in pubblica sicurezza. Alcune donne, invece, mi hanno confessato di essersi ritrovate nei giochi perversi coi proprio compagni”. Ma non è solo la violenza fisica e psicologica a emergere dagli scatti de La Gabbia, ma anche una forte componente erotica che ne connota il lato più godibile, forse. “L'erotismo è molto forte – conferma l'artista – e c'è moltissimo nelle mie fotografie. Io personalmente sono molto erotica, mi piace il corpo femminile perché è sinuoso, misterioso, pieno di sfaccettature, sono molto carnale nelle mie manifestazioni affettive”.
Tutto si legge negli scatti di Barbara Pigazzi, un universo che viene esposto senza censure e senza giudizio, dove il retropensiero se esiste, non fa parte del mondo de La Gabbia, perché per uscirne serve solo la fantasia.