Miriam Giovanzana, giornalista, è tra i fondatori del mensile di inchieste sociali Terre di Mezzo; attualmente si occupa della gestione e della direzione editoriale del gruppo Terre di Mezzo e fa parte del comitato scientifico di Fa’ la cosa giusta!, fiera del consumo critico e degli stili di vita sostenibili.
Raccontare o condividere? Tra i due, preferisco qui il secondo verbo. Provo dunque a condividere una riflessione di un amico filosofo, Roberto Mancini, che ancora mi emoziona e che illumina la passione che condivido con i colleghi con i quali lavoro, i progetti che abbiamo fatto nascere. “Quello che ci interessa - dice Mancini - è la percezione della possibilità della svolta, la scoperta di poter partecipare a dinamiche di umanizzazione che rendono più luminosa la vita di tutti”. Ecco, a me pare che oscilliamo spesso tra la percezione di vivere o in un tempo immobile (non cambia mai nulla, i problemi non si risolvono mai) o in un tempo automatico e accelerato in cui niente dipende dalle nostre scelte personali, un vortice che ci travolge e che, alla fine, toglie spazio alla libertà. Ecco, a me pare che questo nostro tempo è invece il tempo della libertà e della creatività, appunto, come dice Mancini, “della possibilità grande di partecipare a processi di umanizzazione”.
Come concilia questo appassionato sentire con la sua dimensione sociale e “pubblica”?
C’è un aspetto che fatico ad accettare della dimensione attuale del nostro vivere in uno spazio pubblico: quando si ha un ruolo capita di essere cercati o chiamati per tenere una conferenza, partecipare a un seminario… rispondere a una intervista. Sono occasioni in cui ci si dedica reciprocamente del tempo. Alle volte si compiono anche viaggi per tener fede a questi appuntamenti… Ecco, mi colpisce la scarsa qualità dell’incontro che spesso si realizza in questi momenti: appunto, ci ritroviamo (anche attraverso le parole) ma restiamo estranei. Mi emozionano gli incontri che favoriscono la rivelazione e il dono di qualcosa di sé, quando lo spazio non è solo quello della disputatio, ma quello in cui può nascere un “oltre”, un riconoscersi e un indagare le ragioni che ci tengono in vita.
Fa’ la cosa giusta! è dentro questo tipo di incontri?
Certamente sì. Fa’ la cosa giusta! è una mostra mercato che vuole rendere visibili, contribuire a fare emergere le scelte di produzione e di consumo attente all’ambiente, alle relazioni sociali, alla giustizia. Nella sua tredicesima, a Milano, ci sono state circa 70 mila presenze. 700 aziende, 600 giornalisti italiani e stranieri, 4000 studenti. E poi oltre 300 incontri, presentazioni, laboratori, spettacoli teatrali, confronti. Gli stili di vita dicono una relazione con le cose, con gli altri, con il mondo. Illuminano questa relazione, la rivelano. Per questo ci sembrano significativi: in un mondo in cui tutti, pare automatico, abbiamo la possibilità di scegliere, e così contribuire a costruire il futuro. Noi, come Fa' la cosa giusta!, siamo nati nel 2004 da una serie di intuizioni che avevamo frequentato come giornalisti. Un piccolo gruppo di persone, eravamo in 4, ci eravamo trovati 10 anni prima - età diverse e esperienze e idealità diverse - accomunati da un sogno: fare informazione sulla realtà che ci circonda, provando ad essere testimoni, a capire e a raccontare. In modo non da sostituirci allo sguardo del lettore ma di “risvegliarlo”, sollecitarlo. Narrare la realtà, scoprendo i semi di futuro che sono già presenti ma che non tutti vedono, e così aiutare il futuro a vivere: è la descrizione di quello che facciamo come azienda, come casa editrice. Anche Fa’ la cosa giusta! è una narrazione, una narrazione in 3D, in tre dimensioni. Da quando è nata, l’edizione nazionale di Fa’ la cosa giusta! rappresenta un luogo di incontro e l’occasione per fare il punto su quello che ci piace chiamare il “consumo critico”, cioè quel modo di stare al mondo che si pone il tema, non soltanto di allungare la mano e prendere ciò che il mercato offre e ciò che le proprie tasche consentono, ma di scegliere, ogni volta, o ogni volta possibile, consapevoli che si partecipa, con il nostro stesso esistere, a un processo creativo (e quindi, appunto, di umanizzazione). È stata ed è un’avventura appassionante, che poi si è sviluppata anche in altre città, Trento, Genova, Perugia, Piacenza, e lo scorso anno Torino.
Il 2004 dunque. Quasi 14 anni fa. Che cosa è cambiato?
Moltissimo, vorrei dire. E così vorrei anche sfuggire alla percezione del “tempo immobile” che alle volte viviamo e che ci indebolisce nella speranza e nel coraggio. 14 anni fa le auto elettriche non esistevano. Oggi qualcuno potrebbe essere arrivato al lavoro con un’auto di car sharing ed elettrica. Alcune città del nord Europa si stanno ponendo il tema di eliminare completamente l’auto: sembra poco, ma è una piccola rivoluzione perché mina alla base l’economia “fossile”, quella del petrolio, su cui abbiamo basato lo sviluppo degli ultimi due secoli. Probabilmente oggi i libri che abbiamo sul comodino sono stampati su carta certificata FSC o comunque proveniente da foreste non primarie; le energie rinnovabili, il biologico, erano allora temi per pochi, pochissimi, oggi l’Italia è diventata uno dei maggiori produttori mondiali di energie rinnovabili e di prodotti biologici. Ma evidentemente non basta. In realtà il nostro modo di pensare ha influenzato le nostre scelte di vita e quelli che abbiamo imparato a chiamare “stili di vita sostenibili” ci portano a confronti ben più radicali. In questo senso, una delle riflessioni più interessanti che coinvolge le nostre scelte come consumatori ma che, a ben vedere, va alla radice anche del nostro vivere insieme, ponendo una questione di diritti per tutti i viventi, è la scelta vegana. I prodotti vegani sono diventati una moda in questi ultimissimi anni, ed è impressionante come le cose possano cambiare rapidamente; ma la riflessione che sta dietro è ben più rivoluzionaria e merita di essere approfondita.
Le associazioni e le iniziative di cui è promotrice o partecipe sono molteplici e ad ampio raggio, qual è il filo rosso che le lega?
Forse il tema dei diritti. In un certo senso un tema “costituzionale”. Un giorno, su un lungo muro della città, tra il museo della Scienza e della tecnica e San’Ambrogio è comparsa una lunga scritta, in verde. Non amo una città così profondamente segnata su ogni dove da writer di ogni tipo ma incontinenti (non irriverenti). Ma quella scritta era bellissima e l’ho fotografata. Riproduce l’articolo 4 della Costituzione. Ogni volta è una sorpresa. Ecco, cerchiamo di vivere e far vivere questi diritti.
Come è nata e come si è sviluppata l’idea di Terre di mezzo?
È il nome della casa editrice: l’idea che ogni terra di mezzo sia e possa essere un luogo di incontro, di dialogo, di comprensione e di ripartenza. Un luogo, come lo spazio fisico tra i confini di due nazioni, che è terra di nessuno, in cui nessuno è padrone, e quindi sia possibile riconoscersi come portatori di uguali diritti. Forse anche per questo è nata la collana Percorsi della casa editrice, una di quelle di maggior successo: è nata con la prima guida al Cammino di Santiago di Compostela, oggi arrivata alla nona edizione. I cammini storici di pellegrinaggio sono un po’ così: luoghi al di fuori del tempo in cui nessuno è “padrone di casa”, neppure quelle motivazioni religiose che li hanno fatti nascere nel corso della storia e che pure rappresentano una ricchezza. Chi cammina così è parte di una lunga storia di incontri, cultura e libertà.
Quali sono i quartieri di Milano dove maggiormente si vive il disagio e dove prioritariamente si richiederebbero interventi di socializzazione?
Tutti direbbero le periferie, ed è certo: sono aree in cui i problemi si concentrano, dalle nuove povertà al degrado urbano. Ma a me inquietano anche le città-ufficio, che vivono solo in funzione del lavoro, e da cui, non a caso si scappa appena possibile. Anche qui, è il rapporto che abbiamo con il lavoro che disegna i luoghi del nostro vivere. Quartieri dormitorio è espressione che abbiamo imparato a declinare per le periferie. Ma quartieri ufficio, ugualmente, non è qualcosa che possiamo amare, o tramandare al futuro. L’assoluta centralità che nella nostra società abbiamo dato al lavoro pone, di fatto, tutte le altre questioni del vivere in una posizione di asservimento. O, almeno, è quello che a me pare. La città è femminile, non soltanto come genere, ma anche perché sono cresciuti spazi, ruoli, presenze delle donne, ma il centro è ancora maschile: questa opposizione linguistica è vera non solo nel vocabolario. È una città che invecchia e che s’impoverisce di legami sociali. Così, sempre più spesso, le giovani famiglie si trovano a farsi carico non solo dei figli ma anche di genitori o parenti anziani. L’indebolirsi dei legami tra le generazioni non è stato sostituito da un welfare efficiente, e forse non avrebbe potuto; in ogni caso gli anni che ci aspettano non sono più semplici di quelli che abbiamo vissuto da questo punto di vista: le risorse dello stato sociale diminuiscono, le complessità aumentano. Avremo sempre meno figli se non ripensiamo in termini nuovi questo legame lavoro-generazione-società.
Ci può tratteggiare una mappa della Milano solidale?
Complicato. Vi rimando a un sito, che è quello di Redattoresociale.it , che fa informazione in questo senso. Ma, se preferite, un consiglio: quello di provare a guardare la città scendendo le scale e, se vi piace cantare, iscrivendovi a uno dei tanti cori che da alcuni anni si stanno moltiplicando in città. Cantano, non fanno altro, ma lo fanno insieme, e gratis: e questo genera qualcosa che, nel nostro modo di vivere urbano, ha il sapore dell’inedito.