La nave pareva saltata fuori da una nitida e preziosa stampa ottocentesca. […]
"È ammirevole questo amore dei sovietici per tutto quanto testimonia il nobile passato della grande Russia" s'entusiasmò Don Camillo. "Compagni, non basta forse quel veliero per dimostrare la gloriosa tradizione russa nel campo delle costruzioni navali?" […] Sopraggiunse la compagna Nadia che aveva assunto informazioni da un operaio di passaggio: "Si chiama Tovarisch" spiegò "ed è una nave scuola dei cadetti della marina sovietica. Quattromila tonnellate". "Tremila tonnellate" precisò il compagno Bacciga volgendosi di scatto e guardando la Petrovna a muso duro: "si chiamava Cristoforo Colombo ed era una nave scuola dei cadetti della marina italiana".
La compagna Nadia arrossì.
(G. Guareschi, Il compagno Don Camillo)
Incontri insperati, combinazioni fortuite, scoperte improvvise.
Occasioni per riaprire questioni date ormai per archiviate, prefigurando scenari alternativi e provocando nuove emozioni: ora la speranza per uno spasimante scoraggiato, ora la curiosità per un ricercatore impigrito. Occasioni che possono capitare tanto alla comitiva di Peppone in pellegrinaggio nel paradiso del proletariato, quanto a un patito di rottami del Novecento in una grande teca di vetro e calcestruzzo, nel centro di Milano, spaziosa quanto basta per contenere agevolmente biplani, elicotteri, barchini esplosivi, “idroscivolanti”: è la sezione aeronavale del Museo di Scienza e Tecnologia, la cui collezione si aggiorna costantemente: l’ultimo arrivato, dopo lunghe trattative affrontate dal curatore Marco Iezzi, è il catamarano di Luna Rossa, arditamente appeso al soffitto.
Il padiglione è insomma vivo e vorace, eppure questo Leviatano di tecnologie passate e presenti sembra aver inghiottito un boccone troppo grosso perfino per lui. Confinato in un angolo, costretto fra travi e pilastri, spicca il candido volume del ponte di comando del “Conte Biancamano”: poche decine di metri quadri di lamiere su cui ricade l’immane responsabilità di testimoniare un secolo di cantieristica navale italiana, poiché dei tanti famosi transatlantici costruiti nel Novecento non è rimasto nulla.
Va pur detto che una prima draconiana selezione era stata operata dalla Seconda guerra mondiale, che aveva dimostrato l’assoluta ingenuità della misura cautelare di concentrare i maggiori piroscafi nell’Adriatico settentrionale: alla fine delle ostilità il vallone di Muggia era un cimitero di transatlantici mentre poco oltre, in acque ormai straniere, il semiaffondato Rex veniva spolpato dalle maestranze jugoslave.
La Ricostruzione arrivò anche attraverso il trasporto navale: prima vennero restituiti dagli Americani alcuni bastimenti requisiti, come il Biancamano e il Conte Verde. Il secondo passo furono unità allestite anche col reimpiego di giacenze: è il caso della Giulio Cesare (1951) e dell’Augustus (1952), i cui motori avevano atteso invano l’imbarco sulle mai ultimate portaerei Aquila e Sparviero. Completamente ex-novo erano invece le gemelle Andrea Doria e Cristoforo Colombo, l’entrata in servizio delle quali segnò il definitivo ritorno dell’Italia fra i protagonisti della rotta transatlantica. Al contempo si rendeva possibile il ritiro di alcuni piroscafi più vetusti, come appunto il Biancamano, per i cui resti venne appositamente realizzato il padiglione aeronavale del Museo di Scienza e Tecnologia di Milano: un gesto di sensibilità purtroppo mai più replicato.
Pur essendo infatti soltanto la Andrea Doria a interrompere tragicamente la propria carriera, nessuna delle altre turbonavi, veri e propri musei galleggianti dotati di ogni comfort, rinomati per le raffinate soluzioni progettuali e all’avanguardia negli apparati tecnologici, è giunta fino a noi anche solo sotto forma di attrazione turistica statica. Vendute allo Scià la Raffaello e la Michelangelo nel ’77 (salvo poi essere bombardata la prima e demolita la seconda), incendiata la Leonardo a La Spezia nell’80, smantellata la Colombo a Taiwan nell’82, radiata la Marconi (divenuta Costa Riviera) nel 2002, questo prestigioso patrimonio galleggiante poté dirsi definitivamente perduto allorquando, nel 2012, andata deserta l’ennesima asta, i vecchi instancabili motori Fiat sospingevano l’Augustus da Manila alla sua ultima destinazione: la spiaggia di Alang, meglio nota come il cimitero delle navi. Un epilogo penoso, causato non solo e non tanto da rozze logiche ragionieristiche, quanto dalla ben più grave e ancor oggi diffusa reticenza italiana nel riconoscere un valore culturale a una certa produzione industriale, specialmente se di grande scala: fenomeno ben paradossale nella Patria di Marinetti, comprovato dall’estrema fatica con cui si è fatta strada, in Italia, una disciplina come l’archeologia industriale, confinata ancor oggi entro poche, agguerritissime nicchie.
Ecco allora spiegata l’entità del ruolo testimoniale del Biancamano; ecco inoltre, nello stesso padiglione, un altro superstite, più piccolo ma se possibile gravato da una responsabilità ancora maggiore: a una dozzina di metri dal piroscafo è infatti esposta una torretta navale Ansaldo con cannone da 90/50. Si tratta del frammento più voluminoso delle corazzate “classe Littorio” e, in generale, delle grandi unità di superficie della fu Regia Marina. In questo caso però è lecito andare ben oltre il sospetto di omissioni e reticenze, ipotizzando una vera e propria damnatio memoriae.
Vero è che la storia della fine delle navi da battaglia italiane è sconosciuta ai più, eccezion fatta per il martirio della Roma nelle ore immediatamente successive alla proclamazione dell’armistizio. Curiosamente, l’ultima adunata delle corazzate superstiti si tenne in acque straniere: il 10 settembre 1943, nella baia maltese di Marsa Scirocco, i pattugliatori britannici di sorveglianza potevano ammirare le vecchie gemelle Doria e Duilio, la vetusta Giulio Cesare, già da due anni degradata a nave-caserma, e le nuovissime Vittorio Veneto e Littorio, quest’ultima rinominata Italia da poco più di un mese.
Se alle prime tre fu concesso già dopo un anno di rientrare in Patria, i due gioielli della Regia Marina vennero subito destinati all’internamento ai Laghi Amari, in Egitto. Al loro rientro in Italia, ad Augusta, nel febbraio 1947, avrebbero vantato il poco invidiabile primato di una carriera vissuta più in prigionia che in servizio. L’ultimo atto, ovvero la loro cessione a USA e Gran Bretagna tramutata in obbligo di demolizione, si trascinò per un anno fra mercanteggiamenti e rinvii, in balía dell’evolversi del contesto internazionale: se infatti i proclami di Tito sull’imminente nascita di una flotta jugoslava ridavano funzionalità alle due corazzate in un Mediterraneo privo di naviglio britannico (in dismissione) e francese (in Indocina), il successivo strappo fra Belgrado e Mosca e la vittoria elettorale democristiana in Italia avrebbero spinto l’URSS a pretendere e ottenere la demolizione delle “Littorio”, avviata nell’estate 1948 con il simbolico taglio delle canne dei grossi calibri.
Miglior sorte non ebbero le prede sovietiche: la Giulio Cesare, rinominata Novorossijsk con l’intento di farne l’ammiraglia della flotta del Mar Nero, venne presto reimpiegata come nave scuola, ma la notte del 28 ottobre 1955 affondò con 600 marinai in seguito a un’esplosione di origine mai ufficialmente chiarita dalle inchieste, mentre fra le varie ricostruzioni storiografiche la più accreditata sarebbe quella di un sabotaggio del KGB finalizzato alla destituzione dei vertici della Marina, all’epoca poco allineati col Cremlino. Gravi rischi di essere oggetto di sabotaggio in patria li aveva invece corsi la già citata Cristoforo Colombo, tale era stato il pubblico sdegno all’idea di dover consegnare la culla di svariate leve di ufficiali a un ex-nemico ideologicamente ostile col quale era ancora aperta la questione del mancato rimpatrio di decine di migliaia di prigionieri di guerra: ribattezzata Dunay e non Tovarisch, la sorella della Amerigo Vespucci fu poi disalberata e destinata al trasporto fluviale di legname, finché un incendio non la rese inutilizzabile nel 1963; otto anni dopo venne demolita. Alla neonata Marina Militare restavano le gemelle Duilio e Andrea Doria: in forza a Taranto con finalità di addestramento e rappresentanza, si avvicendarono nel ruolo di ammiraglia fino alla fine del 1956; una volta radiate e trasferite a La Spezia, si procedette alla demolizione di entrambe.
Oggi allora la più grande unità militare storica italiana è l’Amerigo Vespucci, impossibile però da definire rappresentativa di un’epoca per via della sua estrema peculiarità. L’eredità dei giganti dimenticati si riduce invece a un pulviscolo di frammenti, ancore e strumentazioni di bordo sparpagliati nei vari musei italiani: ecco quindi confermata l’importanza documentaria della torretta Ansaldo di Milano, accanto a cui si può ancora ricordare, per le dimensioni del pezzo più che della nave di provenienza, il doppio cannone da 152 dell’incrociatore Montecuccoli, scampato alla fonderia per iniziativa dell’imprenditore Mario Spagnoli, successore della più nota Luisa, che lo volle all’ingresso del parco dei divertimenti da lui costruito vicino a Perugia.
Col senno di poi, è allora senz’altro motivo di rammarico la mancata conservazione di almeno una fra Duilio e Doria, ma va anche ricordato che la mentalità e le priorità dell’epoca erano ben diverse: fame di acciaio, diffuso antimilitarismo, rimozione collettiva di una guerra persa malamente non potevano che spingere alla decisione di demolire due colossi dagli elevati costi di manutenzione.
La longevità e le vicissitudini di Doria e Duilio, entrate in servizio nel 1915, ne facevano altresí l’incarnazione di quattro decenni di storia navale militare italiana, compresi i tanti errori: nello specifico, il fallimentare ammodernamento degli Anni Trenta, spacciato per rapido, economico e funzionale ma rivelatosi lungo, costoso e insufficiente. Se non altro le due vecchie gemelle, si ritagliarono un ruolo importante nella scorta ai convogli, mentre del tutto marginale si rivelò il peso tattico di Vittorio Veneto e Littorio: utili più che altro alla propaganda e tecnicamente ineccepibili, ma concettualmente superate e finanziariamente insostenibili, simboleggiarono al massimo l’arretratezza e la miopia della Regia Marina, rea di rinunciare del tutto alla costruzione di portaerei per dare la precedenza a questi giganti, salvo poi non accantonare per loro adeguate riserve di nafta. Fatale errore strategico destinato a ripetersi, mutatis mutandis, in tempo di pace, al momento dell’ordinazione fuori tempo massimo di altre due dispendiose gemelle: la Michelangelo e la Raffaello. È forse chiara allora la vera causa della fitta coltre di silenzio che avvolge l’epilogo delle grandi unità italiane: un imbarazzo talmente forte da avere la meglio sul valore testimoniale.
Niente di più lontano dai sentimenti che suscita un’altra attempata “signora dei mari”, alla fonda nel porto ateniese di Falero: l’incrociatore “Giorgio Averoff”, già ammiraglia della flotta ellenica, oggi monumento nazionale mantenuto in piena efficienza. Questa nave, già nel cuore dei Greci, avendone vissuto la storia da protagonista, dall’ingresso trionfale nel Bosforo alla fine della Prima guerra mondiale, alla fuga precipitosa verso l’Egitto pur di non cadere in mano ai nazisti, potrebbe inoltre suscitare l’affetto, non privo di un fondo di amarezza, degli Italiani, essendo essa stessa un’Italiana mancata: si tratta infatti del terzo esemplare degli ottimi incrociatori pesanti “classe Pisa” che la Regia Marina ordinò nel 1908, salvo poi limitarsi per sopraggiunte ristrettezze a due soli acquisti (“Pisa” e “Amalfi”) permettendo così il subentro del governo ellenico nella commessa.
Malgrado le premesse scoraggianti, ecco infine avvistata, a centinaia di miglia dalle coste metropolitane, una superstite della grande cantieristica italiana del Novecento: un’eccellenza che, rifiutata in Patria per motivi economici, ha trovato all’estero le condizioni per dare il meglio di sé.
Come tante altre.
Ringraziamenti:
Fassio Mini, Mario Pap, Domenico Massi, Alfredo Liberi, Matt Salier, Daniele Bacchi.
Bibliografia:
Alberto Quarati, Addio Augustus, ultimo transatlantico ne Il Secolo XIX 9/3/2012