Flautista dall'impronta stilistico-espressiva inconfondibile, sassofonista, polistrumentista, Franco Olivero persegue da anni una coerente linea compositiva le cui coordinate spaziano tra jazz, world e ambient.
Zona Franca è il tuo nuovo album, un decennio da La sottile fune. Che differenze ci sono rispetto al precedente?
In linea di massima l’aspetto principale che differenzia i due album è la componente interattiva tra i musicisti. Questo aspetto è sostanzialmente la conseguenza di un dato più organizzativo che compositivo. La sottile fune è un disco maggiormente “costruito” dove ogni singolo brano è stato elaborato come se avesse una propria individualità. I brani sono stati registrati in tempi diversi e con una attenzione rivolta appunto al singolo pezzo come se, da un punto di vista registico, a ognuno di essi venisse fornito un diverso contesto scenografico benché legato da una unità di percorso e di stile. In Zona Franca invece direi che emerge maggiormente un sound di gruppo: il disco è stato provato e registrato in un “unico respiro” con l’intenzione di creare, in linea di massima, l’idea di ascoltare un ensemble di musicisti che dialogano e interagiscono in un tempo verosimilmente reale.
Mai come in questo disco c’è un legame tra passato e presente, visto che vengono a galla tue precedenti esperienze filtrate alla luce dell’attualità. Qual è la chiave con cui ti sei avvicinato a questi “frammenti” del passato?
Onestamente da una paura che a sua volta si è trasformata in necessità: la necessità di non voler chiudere in un cassetto una serie di frammenti, appunti, idee sonore che in parte avevano fornito l’impronta sonora di contesti artistici non solo musicali (pièce teatrali, reading, danza contemporanea... ) o che invece sarebbero rimasti sulla carta o sul software musicale del mio mac se non avessero trovato un contesto adeguato per essere espresse. Da qui l’idea di rifare un disco dopo tanto tempo. La fase di ricomposizione di questo materiale è stata appunto elaborata in questa prospettiva e anche dalla voglia di condividere i miei brani con stimati musicisti.
Zona Franca può essere considerato un “manifesto” della tua musicalità, mai schierata apertamente nel jazz, nella colta o nella world music, ma situata al crocevia tra queste aree. Vivi questo eclettismo di fondo come un limite o un’opportunità?
Senz’altro come un’opportunità e soprattutto una libertà da un punto di vista prettamente creativo. Per contro però questo che tu definisci eclettismo e che in modo forse un po’ presuntuoso io definisco “ricerca stilistica” mi ha sempre creato dei problemi, diciamo così, di mercato, poiché il risultato è una musica non etichettabile e quindi difficilmente collocabile.
Tra La sottile fune e Zona Franca c’è stato il bell’exploit di Chiara Rosso (Elemento H2O, del 2013) nel quale hai avuto un ruolo significativo. Quando lavori per altri artisti, in che modo cambia il tuo approccio alla materia musicale?
Vivo con immenso piacere il fatto di poter essere chiamato da altri artisti che conoscono e ri/conoscono la mia identità allo stesso modo che io posso riconoscere la loro. Amo poter interagire con progetti originali dove emerge una peculiare identità espressiva all’interno della quale anche io possa essere a mio agio. Direi dunque che sostanzialmente non cambia se gli aspetti descritti sopra sono in equilibrio.
Chiara Rosso è una delle figure che arricchiscono Zona Franca, insieme a lei troviamo musicisti blasonati come Paolo Franciscone, Francesco Bertone, Paolo Masia e Marco Allocco. Hanno offerto un contributo puramente esecutivo o li hai coinvolti anche nella scrittura e negli arrangiamenti?
Certo, grandi musicisti e grande vocalist! Più che sull’arrangiamento sono intervenuti, come già forse ho lasciato intendere, come singole identità che intervengono con la loro forte personalità su un progetto organizzato: in sostanza se in Zona Franca non ci fossero stati loro ma altri musicisti, il disco non suonerebbe così.
Flauto, violoncello, piano e sintetizzatori, contrabbasso e batteria: Zona Franca ha un organico piuttosto sui generis…
Beh sì... e considera questa volta mi sono “tenuto”... Nell’album precedente in aggiunta c’erano anche flauti etnici (come d’altronde nel cd di Chiara e in un solo brano di questo album) e altri strumenti percussivi. In realtà mi piace pensare che l’organico di questo lavoro è composto da una ritmica jazz con la parte melodica affidata al sax e al flauto (e qui possiamo stare ancora nell’ambito del quartetto jazz) ma con l’aggiunta di uno strumento consuetamente considerato classico ma che dal mio punto di vista e ovviamente non solo il mio (vedi il successo dei 2 cellos) è uno strumento ricontestualizzabile in diversi ambiti stilistici. È ovvio che il violoncello è uno strumento che io amo molto, ma per ciò che mi riguarda, soprattutto il violoncellista (nel caso specifico Marco Allocco) che fa la differenza.
Sei un autore aperto alla diversità, infatti operi tra teatro, cinema, danza contemporanea e arti visive. Qual è l’elemento musicale che accomuna i tuoi lavori in tutti questi ambiti?
La libertà espressiva che paradossalmente questi ambiti extramusicali offrono. Cerco di spiegarmi: se fai un lavoro solamente musicale prima o poi devi porti il problema di farlo stare in uno stile riconosciuto ed etichettabile. Se invece, supponiamo, lavoro con un attore l’attenzione è rivolta ad altre componenti: il testo, il modo di esprimerlo di quell’attore, la trama emozionale che si vuol creare... e dunque: non mi pongo più il problema se ho o non ho un fraseggio jazz, se faccio un richiamo melodico che assomiglia a una ninna nanna di tradizione orale o classica ecc... Ecco da dove arriva il mio eclettismo, dalla necessità (piacevole) di creare dei quadri emozionali, delle immagini, delle suggestioni veicolate da quell’immenso universo comunicativo che è la musica. E poi... la mia passione per le arti visive è ereditaria: mio padre lavorava in ambito pittorico e io oltre agli studi musicali ho fatto il liceo artistico.
Un’altra area importante nella quale lavori è la musicoterapia: in che modo questa attività penetra nella composizione di Franco Olivero?
Se da un lato tendo a distanziare i due ambiti professionali (quello del musicoterapista da quello del musicista) non posso negare che in qualche modo l’uno influenza l’altro: la formazione e soprattutto l’esperienza pratica della musicoterapia mi ha insegnato ad ampliare il mio range di ascolto (in termini non solo musicali) e di ricerca di comunicazione con particolare attenzione all’aspetto del dialogo interattivo. Questo ha sicuramente condizionato la scelta dei musicisti che impersonano l’aspetto che io definisco “sano” del jazz: cioè quello dell’interplay contrapposto a quello insano e autoreferenziale dell’esibizionismo tecnico. È anche vero che (la domanda che me lo fa venire in mente) alcune idee compositive sono nate suonando il pianoforte nella mia aula in attesa tra una seduta e l’altra...
Zona Franca fa parte della scuderia Ultra Sound Records, che ha in catalogo nomi come Eric Marienthal, Gigi Bonafede e Fabrizio Poggi. Un artista come te, colto e poliedrico, come vive l’attuale crisi della discografia?
In maniera disorientata: ho un figlio adolescente che suona la chitarra e ama il metal ma... non ha un disco e... ecco l’aspetto disorientante: per noi il fatto di possedere il disco oltre essere un punto di arrivo, una tangibile conquista, in qualche modo era anche un po’ vissuto come una sorta (perché no?) di “avvicinamento all’artista”, un po’ come quando di un pittore si acquista un’opera. Ma mi fermo qui dicendo che non è solo una questione di musica solida o liquida, di accesso conquistato o facilitato alla musica: la questione è il rispetto per chi opera nel settore, per chi studia, per chi ha idee, talento e soprattutto originalità. Non vedo più energia né imprenditoriale né mediatica che vada in tal senso, ciò mi rattrista molto ma... spero di sbagliarmi.