In occasione della Giornata Mondiale della Tigre, che si celebra il 29 luglio, Survival International denuncia lo sfratto dei popoli indigeni operato in India nel nome della “conservazione” del più grande felino del mondo. Un atto illegale che non solo causa la distruzione delle tribù, ma che è anche controproducente per le tigri stesse.
L’International Union for Conservation of Nature (IUCN) stima che rispetto agli anni ‘90 la popolazione mondiale di tigri sia diminuita del 50% e classifica l’animale come specie “In pericolo” assegnandole una priorità di conservazione. A meno di interventi specifici mirati a neutralizzare le minacce e in alcuni casi a incrementarne la popolazione, l’estinzione si profilerebbe come una prospettiva concreta.
In India, il paese che ospita circa la metà delle tigri del mondo, il governo ha creato una serie di parchi per proteggerle. Contestualmente però, sulla base di supposizioni erronee e faziose, le autorità sono impegnate da anni nell’espulsione delle comunità locali – che spesso sono popoli indigeni che abitano quegli stessi territori da tempi immemorabili.
Non solo tigri
Il Parco Nazionale di Khana, nella foresta del Madhya Pradesh, è dedicato alla protezione delle tigri e alle attività turistiche a esse associate. L’area, che un tempo ispirò Il libro della giungla di Rudyard Kipling, è la terra natale dei Baiga.
I Baiga vivevano e si prendevano cura con successo della foresta già molti secoli prima dell’arrivo del potere coloniale. Oggi, però, la loro sopravvivenza è a rischio. Negli anni ’60, infatti, 28 villaggi furono “spostati” dalla zona centrale del parco (un’area di 1.000 chilometri quadrati demarcata come foresta “vergine”) a una zona “cuscinetto” circostante in cui a animali e uomini dovrebbe essere permesso convivere. Da allora, gli indigeni hanno vissuto sotto la minaccia costante di sfratto forzato da parte di funzionari troppo zelanti che li considerano un ostacolo alle politiche di conservazione della tigre.
Dopo anni di pressioni incessanti, nel 2014 i Baiga sono stati realmente sfrattati senza ricevere un’adeguata compensazione. Secondo quanto denunciato, i funzionari del Dipartimento Forestale avrebbero minacciato di mandare gli elefanti a calpestare le loro case e i raccolti se non se ne fossero andati immediatamente. E così oggi vivono una situazione disperata.
“Le persone della riserva ci hanno costretto ad andarcene" ha dichiarato un uomo Baiga dopo essere stato sfrattato con la forza da Kanha. "Ci hanno detto che avrebbero avuto cura di noi per tre anni, ma non hanno fatto nulla. Non è venuto nessuno ad aiutarci nemmeno quando mio fratello è stato ucciso”.
Il governo post-coloniale indiano li classifica come “Altre Classi Arretrate” e li considera, erroneamente, primitivi. Data la loro condizione di “adivasi” (parola in Sanscrito che si traduce come i “primi abitanti”), una volta sfrattati dalla loro foresta ancestrale e privati della terra, gli indigeni si ritrovano esclusi dal sistema indiano delle caste, e devono lottare duramente per stabilizzarsi o trovare un impiego significativo.
Sfratti crudeli, razzisti e illegali
Per un popolo che venera le divinità della foresta, abituato a produrre i suoi beni e a raccogliere prodotti in modo sostenibile, lo spostamento forzato verso accampamenti di fortuna – ai margini di un parco in cui non possono più entrare – unito alla dipendenza dagli aiuti alimentari, significa solo povertà, malnutrizione e alcolismo. Le comunità vengono frammentate e i loro mezzi di sostentamento distrutti.
“Dateci del cibo avvelenato, finiteci qui e adesso. Va bene. Ma non ci sradicate da qui. […] Abbiamo bisogno dei nostri campi e delle nostre case. Se ce ne andassimo da qui, la giungla farebbe fatica a sopravvivere. La giungla esiste solo grazie a noi, e c’è acqua solo perché noi siamo qui. Se ce ne andremo – vedrete – dopo qualche tempo non rimarrà più niente” (Un uomo Baiga prima degli sfratti).
Questi sfratti, però, sono illegali. Le rivendicazioni territoriali dei Baiga sono riconosciute dal Forest Rights Act indiano del 2006, varato per porre rimedio alle storiche ingiustizie perpetuate dalle preesistenti leggi forestali coloniali (ovvero, l’Indian Forest Act e il Wildlife Protection Act) che permettevano al governo di convertire facilmente qualunque area in zona di conservazione o riserva.
Ad alcuni termini e condizioni, il Forest Rights Act prevede anche misure in favore delle tribù che vivono nella foresta da più di 75 anni. In particolare, disciplina i diritti alla proprietà e all’utilizzo della terra, a forme di “assistenza e sviluppo” in caso di sfratto illegale, e all’autorizzazione a gestire e conservare la terra. Gli avvisi di trasferimento dovrebbero essere valutati dai gram sabha (le assemblee dei villaggi), che devono dare il consenso previo, libero e informato.
Tuttavia, nel caso di Khana nessuno di questi requisiti è stato rispettato e i Baiga sono stati a malapena informati sui loro diritti; molti, addirittura, non sanno neppure dell’esistenza del Forest Act.
In un’altra celebre riserva delle tigri, il Parco Naturale Kaziranga, vige addirittura la politica dello “sparare a vista”. Secondo questa policy, chiunque sia sospettato di bracconaggio da una guardia forestale, può essere giustiziato immediatamente: senza processo, senza giuria, né giudice né capi d’imputazione. Naturalmente, ciò ha gravi implicazioni per i popoli indigeni che vi abitano e favorisce la linea sempre più dura delle autorità preposte alla conservazione, cui viene dato potere sulle loro terre ancestrali. Proprio qualche giorno fa, un bambino di 7 anni della tribù degli Oroan è stato ferito da un guardaparco. L’Hindustan Times ha riportato che altri indigeni dell’area sono stati colpiti e feriti come “bracconieri” solo perché giravano all’interno dei confini del parco per recuperare il bestiame o raccogliere legna. Si stima che negli ultimi nove anni, solamente all’interno di Kaziranga, siano state uccise 62 persone.
Sebbene l’India abbia firmato anche la Dichiarazione sui Diritti dei Popoli Indigeni delle Nazioni Unite e la Convenzione ILO 107, lo scarso rispetto di questi accordi è servito solo a rendere più profondo il pantano politico che si è creato intorno alla questione.
Le grandi organizzazioni per la conservazione sono colpevoli di sostenere questa situazione. Non denunciano mai gli sfratti e gli abusi, stringono partnership con l’industria e il turismo, e così facendo distruggono i migliori alleati dell’ambiente.
Parks Need Peoples
Non ci sono prove che lo sfratto dei popoli tribali possa proteggere le tigri: in realtà, è più probabile che le danneggi. I popoli indigeni sono infatti i migliori conservazionisti e custodi del mondo naturale – dovrebbero essere in prima linea nella conservazione della tigre. Al contrario, ne vengono spesso esclusi nel nome di una concezione dell’uomo come forza distruttiva nei confronti della natura.
Esistono in realtà prove che dimostrano che nelle aree in cui gli indigeni non sono stati sfrattati vivono più tigri . Tra il 2010 e il 2014, la popolazione delle tigri nella Riserva di BRT, nello stato di Karnataka, è quasi raddoppiata passando da 35 a 68 esemplari. Qui, a differenza di quanto accade nel resto dell’India, gli indigeni Soliga hanno potuto continuare a vivere a fianco del felino, nel cuore della riserva.
I Soliga hanno un rapporto consolidato con il loro ambiente naturale, e adorano la tigre. Madegowda, un membro della tribù, ha raccontato: “noi veneriamo le tigri come dei. Qui non c’è stato nemmeno un conflitto tra le tigri e i Soliga, o episodi di caccia”.
“Questi dati dimostrano che la politica governativa di sfrattare i popoli indigeni dalle riserve delle tigri è non solo immorale, ma anche controproducente” spiega il Direttore generale di Survival Stephen Corry. “Quando le comunità indigene possono restare, le tigri tendono a stare meglio – dopotutto hanno convissuto con questo felino per generazioni. Ma, a differenza di questi popoli, le migliaia di turisti che transitano ogni giorno all'interno delle riserve portano una notevole quantità di denaro all'industria della conservazione. E, naturalmente, grazie ai turisti le tigri si abituano anche alla presenza umana – cosa molto utile ai bracconieri. Il modo migliore per salvare la tigre è lasciare in pace le tribù che hanno sempre protetto le loro foreste”.
Questo è uno dei concetti fondamentali alla base della campagna Parks Need Peoples (ovvero “I parchi hanno bisogno dei popoli”), lanciata da Survival nel 2014 per un nuovo modello di conservazione che finalmente rispetti gli standard internazionali sui diritti umani e indigeni.
Al cuore della campagna vi è la ferma convinzione che i popoli indigeni sappiano prendersi cura del loro ambiente meglio di chiunque altro, e che l’attuale modello di conservazione non potrà avere successo se non lo riconoscerà. I popoli indigeni sono gli alleati naturali della conservazione e anziché essere presi di mira, dovrebbero essere coinvolti in soluzioni costruttive.
A cura di Survival International
Per maggiori informazioni:
Riserve delle tigri, India
La campagna di Survival Parks Need Peoples