Quelli della generazione degli ultrasessantenni ricordano certamente i taxi verdi e neri della loro infanzia, quando il loro uso era un lusso per pochi. Erano tempi in cui i tassisti indossavano la divisa: un camice color caffellatte e il berretto con la visiera simile a quello dei ferrovieri.
Nientemeno che un regio decreto del 1927 stabiliva che le automobili destinate al servizio pubblico fossero dipinte di verde con il padiglione in nero; le due colorazioni dovevano essere separate da una striscia sulla linea di cintura con i colori della città di appartenenza. Rimasero così fino alla metà degli anni Settanta, sebbene già un Decreto del Presidente della Repubblica del 1959 avesse cancellato quella vecchia imposizione cromatica liberalizzando la scelta del colore. Probabilmente ispirandosi ai cab statunitensi, fu generalmente adottato il giallo. Singolare il caso di Torino dove una disposizione comunale, considerata la difficoltà di riconoscerli a causa delle colorazioni diverse che ognuno sceglieva, impose dal 1976 il giallo. Più tardi cominciarono a diventare bianchi, con un periodo abbastanza lungo di convivenza con i gialli.
I taxi della nostra infanzia avevano un fascino straordinario. Ce ne servivamo, in famiglia, solo quando si era in partenza per le vacanze estive dai parenti in Puglia o in Abruzzo, affrontando la spesa per l'impossibilità di raggiungere la stazione ferroviaria in autobus con il carico dei bagagli. Già il percorso da casa alla stazione era per noi piccoli una festa, con i genitori sul divano posteriore e noi, davanti a loro, sugli strapuntini a scomparsa di cui molte macchine erano dotate. Sul cruscotto troneggiava un gigantesco tassametro meccanico con i numeri a caduta ritmati da un fragoroso ticchettio.
E che automobili! Una delle più diffuse era la Fiat 1100 BL, dall'aspetto quasi severo col muso carenato e i fanali sui parafanghi, che sembravano occhi accigliati; si contendeva il primato con la sobria ed elegante Lancia Ardea e con la mastodontica Augusta che portava gagliardamente i suoi numerosi anni di vita: tutte accomunate dalla posizione della ruota di scorta a vista sul retro o sulla fiancata prima dello sportello anteriore. Noi piccoli le preferivamo di gran lunga alle più moderne della Fiat e dell’Alfa Romeo, che erano normali berline a quattro posti senza gli strapuntini per noi comodissimi e divertenti.
Avevano queste vetture un che di monumentale e di austero. Nel mio quartiere sostavano in una piazza al culmine di una salita e quando ci si arrivava a piedi la prima immagine che ci appariva era proprio quella dello schieramento, quasi da parata militare, dei loro musi massicci allineati uno al fianco dell'altro. Erano tempi in cui un'automobile, destinata al taxi, si comprava una volta per sempre, fidando nella sua longevità e si manteneva in vita e in efficienza con tutte le possibili premure.
Grande protagonista nei film, il taxi è stato luogo di casuali incontri d'amore, mezzo improvvisato per tumultuosi inseguimenti e per fughe avventurose. Tantissimi i film nei quali essi sono al centro della trama: dall’indimenticabile capolavoro di Martin Scorsese, Taxi Driver, con uno strepitoso Robert De Niro al fantasioso e stravagante, Un taxi color malva del 1977, con Peter Ustinov, Charlotte Rampling e Philippe Noiret; da Taxi blues, ambientato nella Mosca della perestrojka, a Taxi, storia di quattro tassisti madrileni che danno vita a una sanguinaria rivolta; da Taxisti di notte, cinque episodi ambientati in altrettante città, New York, Los Angeles, Roma, Parigi ed Helsinki, al Tassinaro di Alberto Sordi. Storie, sentimenti, speranze, illusioni e vite di città, vissute e viste dall’interno di un taxi, in film di vario e diverso livello non sempre altissimo, ma sempre testimoni del fascino della vita di un tassista.
Ma non si può non ricordare Gli uomini che mascalzoni, capolavoro di leggerezza e di spirito del 1932 di Mario Camerini, con un giovanissimo Vittorio De Sica e una deliziosa Lia Franca. La scena finale, quella della dichiarazione d’amore che Bruno rivolge a Mariuccia, si svolge in un taxi guidato, all’insaputa dei giovani innamorati, dal padre della ragazza, uomo burbero e all’antica, che commenta con muti e divertenti gesti e con qualche preoccupazione la scena che si svolge alle sue spalle. Il film si chiude con il tradizionale “vissero felici e contenti” e con la celebre colonna sonora Parlami d’amore Mariù che va sulle immagini di una ruota del taxi che gira vorticosamente.
Il taxi di oggi sembrerebbe aver perso gran parte del fascino di un tempo, regolato com'è dalla freddezza della voce di una radio. Ma basta sedersi accanto al conducente, per ascoltare storie straordinarie di vita, di peripezie, di esperienze imprevedibili, stravaganti e divertenti a contatto con la variegatissima umanità dei viaggiatori di oggi. Uno di loro mi ha raccontato di un film di Tyrone Power, registrato e quasi imparato a memoria a furia di rivederlo, che si chiude con la confessione del protagonista che andrà in America a fare il tassista. Frase che – mi ha confidato – gli piace assai e gli conferma che il suo lavoro è il più bello del mondo.
Provate, dunque, a sedere al fianco del prossimo tassista che incontrerete. Dopo aver accertato che non sia uno di quei pochi inaffidabili imbroglioni rimasti ancora in servizio, che mirano a far scorrere il tassametro il più a lungo possibile, scoprirete un personaggio dalla conversazione piacevolissima e che, in fin dei conti, il fascino del taxi non è ancora tramontato, anche se adesso non c’è più la divisa e le macchine in servizio pubblico non hanno più niente di austero e di monumentale, ma sono tali e quali a quelle che guidiamo noi.