Il teatro Sadler’s Wells di Londra ha recentemente ospitato tre lavori (che verranno riproposti in autunno sia a Londra sia a New York) commissionati da Natalia Osipova ad altrettanti coreografi per (re)introdurla nel variegato mondo della danza contemporanea. Spettacolo in tre atti diversissimi fra loro, presentato in conferenza stampa lo scorso novembre.
Conferenza che non aveva scongiurato qualche perplessità sin dall’inizio, poiché la Osipova era accompagnata dal compagno di palco e di vita: Sergei Polunin, il quale aveva tenuto a ribadire la loro intenzione di danzare quasi esclusivamente insieme da quel momento in avanti, sottolineando quanto il loro rapporto off-stage fosse da considerarsi linfa vitale per una migliore resa sul palco. Seppur romantico e affascinante, il loro punto di vista pare averli fuorviati da ciò che si richiede a due artisti del loro calibro, nel calcare le scene. La tripletta del Sadler’s Wells ne è stata prima conferma (benché i due abbiamo già danzato insieme il repertorio classico). Natalia Osipova e Sergei Polunin, pressoché coetanei e provenienti da background equiparabili, si trovano in un momento artistico e fisico molto diverso delle rispettive carriere e il palco non fa che accentuarne le differenze, al limite dell’inconciliabilità.
Se da un lato abbiamo la ballerina fuori dagli schemi del Bolshoi che si trova (anzitempo?) a voler sperimentare un salto nel contemporaneo ‘à – la – Guillem’, dall’altro l’outsider conteso dai più grandi teatri del mondo, è qui chiamato in veste di ospite ma si ritrova a reggerle semplicemente, e banalmente, il gioco. Poiché di poca ricercatezza si tratta e le coreografie in cui si sono cimentati mancano dell’effettiva capacità di mettere in scena i loro diversissimi talenti.
Osipova pare consapevole dell’essere una ballerina classica sui generis e uno sguardo al contemporaneo potrebbe lasciarla, finalmente, libera di sperimentare le sue doti acrobatiche di eco circense e la sua espressività scenica da rivedere, in lavori in grado di coglierne davvero l’essenza (il continuo ribadire il proprio ‘danzare con l’anima’ è pura ridondanza. Se di anima si tratta il pubblico la coglierà, senza la necessità costante di ricordarlo).
La coreografia di Sidi Larbi Cherkaoui ben si adatta ai due danzatori che la accompagnano, ma la lascia in balia di se stessa. Laddove, il lavoro di Russell Maliphant – quasi a voler calcare l’onda dell’esemplare Take me to church (videoclip dello scorso anno, interpretato da Polunin sulle note di Hozier e coreografato da Jade Hale-Christofi) manca dello stesso spirito che ha portato alla creazione di quel video: far brillare l’artista al massimo del suo potenziale. Osipova e Polunin hanno bisogno di tutt’altro per risplendere. L’opera di Arthur Pita è lodevole per il tentativo tarantiniano di coinvolgere il pubblico con atmosfere e musiche anni ’60 e costumi sgargianti, ma si colloca - tristemente - anche lui all’interno di questo pastiche che fa sorgere spontanea una domanda: tutto qui?