Lea Melandri è saggista, scrittrice, giornalista, intellettuale di punta del movimento femminista, approdata dalla Romagna a Milano negli anni '60, dove è presidente e docente della Libera Università delle Donne ed è stata insignita dell'Ambrogino d'oro, uno dei massimi riconoscimenti del lavoro e della cultura ambrosiani. Negli anni '70 ha fondato, assieme ad Elvio Facchinelli, la rivista L’Erba Voglio e successivamente ha ideato e diretto Lapis. Percorsi della riflessione femminile, frutto anche di gruppi di pratica dell’inconscio, di sessualità e scrittura da lei stessa promossi. Tra i suoi numerosi scritti, dove riesce a conciliare l’aspetto saggistico con una scrittura densa ed emotiva, citiamo L’Infamia originaria, Le passioni del corpo, La perdita e l’ultimo Amore e Violenza, che indaga sul “fattore molesto della civiltà”.
Cosa ha rappresentato per lei Milano e come la vede cambiata, oggi, rispetto a cinquant'anni fa?
A Milano sono approdata avventurosamente dopo la fuga improvvisa, anche se nel profondo meditata a lungo, dal paese, dalla famiglia, da un matrimonio sbagliato, dal ruolo appena assunto di insegnante di liceo. Che cosa poteva rappresentare una grande città per una figlia femmina di contadini che aveva avuto il singolare privilegio di studiare, ma non la possibilità di sottrarsi alle convenzioni, ai condizionamenti, agli obblighi morali o solo abitudinari di una collettività di provincia ristretta, vitale come lo è la gente di Romagna, ma chiusa e impietosa con chi trasgredisce le sue regole? Era il 1966 e per me, che arrivavo ignara dei movimenti che già stavano trasformando il mondo, Milano è stata all’inizio solo il luogo di un anonimato protettivo, della libertà da un destino precostruito. La sensazione felice e inquietante di una nuova nascita, sia pure tra tante difficoltà: mancanza di casa, di soldi, di lavoro, timore e senso di colpa rispetto a quelli che avevo abbandonato. Milano è stata per i primi mesi le sue vie, la sua massa in continuo movimento, i suoi tram dove sapevo che nessuno mi avrebbe ritrovato e costretto a tornare al paese.
I suoi libri sono “compositi”, “tragitti di pensiero”: anche l'ultimo Amore e Violenza?
Ho detto spesso che i miei libri nascono “strada facendo”. Non so cosa vuole dire mettersi a tavolino, avere un’idea in mente articolata in capitoli, comporre le argomentazioni secondo un ordine prestabilito. Forse questo fanno gli studiosi. Io ho avuto la fortuna di non avere una formazione accademica, anche se ho fatto l’università, e di aver cominciato la mia scrittura pubblica con un movimento antiautoritario che mi permetteva di fare della vita, dell’esperienza personale, non più il “fuori tema”, come era stato al liceo, ma “il tema”. Mi considero una pensatrice libera, solitaria e socievole tanto da poter tenere insieme una pratica politica fatta di incontri, riflessione collettiva, e momenti in cui il pensiero torna sui propri passi, e ritrova il silenzio necessario per scavare nel profondo della vita personale, inseguendo quei tracciati remoti che accompagnano l’individuo come un destino... Sono rimasta la figlia del contadino, che aiutava i famigliari nella semina, che sognava le strade del mondo ma poi si rintanava dentro le braccia protettive degli alberi.
“Idee forti” del suo pensiero sono la figura dell'“uomo-figlio” e quella del “marito e padre-padrone”.
Sul capovolgimento che si può ipotizzare all’origine tra la posizione di dipendenza, debolezza, inermità del figlio e quella dell’uomo, padre, marito non si riflette mai abbastanza. La violenza maschile scatta quasi sempre quando una donna si separa, o pretende di decidere autonomamente della propria vita. È il momento in cui le parti sembrano di nuovo invertirsi, tornando al punto d’origine: la libertà femminile va a confondersi col fantasma della potente genitrice che può decidere della tua vita e della tua morte, che mette in scacco sicurezze virili, e per ciò stesso fa emergere fragilità e dipendenze insospettate. A volte, intollerabili. Come uscirne? ... Un passo avanti significativo può essere, da parte maschile, portare nella vita pubblica la fragilità, i bisogni che finora ha consegnato al privato, alle cure di mogli, sorelle e madri, partire dal riconoscimento che la dipendenza è parte integrante della vita di tutti e che è responsabilità collettiva darvi una risposta.
Risalendo alle sue origini romagnole e alla successiva lusinghiera affermazione come scrittrice, si pone il problema della lingua: come lei stessa ha suggerito, nella diade italiano-dialetto si riflette città-campagna, maschile-femminile, mente-corpo; il graduale abbandono del dialetto non le sembra il segnale di una progressiva egemonia del pensiero sulle “passioni”?
Non c’è dubbio: il passaggio dal dialetto, la lingua parlata in famiglia, all’italiano imparato a scuola, ha provocato fin dalle elementari una separazione destinata a durare tra la fisicità dominante, per la classe sociale e il sesso “senza storia” a cui appartenevo, e un pensiero che non poteva raccoglierla, tradurla nei linguaggi colti della letteratura, dell’arte, della filosofia. Il dualismo, corpo-mente, natura-cultura, è diventato non a caso il filo conduttore di tutta la mia formazione intellettuale. Il mondo emotivo, legato alla mia infanzia e adolescenza è rimasto in gran parte consegnato al dialetto, e ho invidiato il mio amico, compaesano, Giuseppe Bellosi, che di quella nostra prima lingua è riuscito a fare opera poetica. È come se avesse scritto anche per me. Non posso dire tuttavia che il corpo, le passioni non siano entrate nella mia scrittura. Avvicinare la parola al vissuto corporeo è stato un desiderio costante del mio percorso intellettuale, un po’ come ritrovare radici di terra troppo violentemente strappate, e ha comportato una lunga riflessione su me stessa, una ricerca di anni. È stato solo nel corso della terapia analitica che ho fatto negli anni ’80, che ho sentito la mia scrittura cambiare, il pensiero teorico lasciarsi contaminare da spinte emotive, la chiarezza del ragionamento dalla densità sentimentale dei ricordi. È stato in quegli anni che ho scritto il mio libro più “lirico”, anche se si trattava di una scrittura saggistica: Come nasce il sogno d’amore. Del resto, l’idea di uscire dai dualismi che ci hanno tenuto divisi in noi stessi è la lezione più originale del femminismo. Il desiderio di ritrovare l’interezza del proprio essere non poteva che partire dalle donne, che col corpo sono state identificate, ma di cui hanno subito al medesimo tempo una violenta espropriazione.
La “femminilizzazione” dello spazio pubblico ha portato alla ribalta il corpo della donna, seduttivo e materno, ma anche degradato dallo scambio “sessuo-economico”.
Dal momento in cui le donne sono più presenti nella sfera pubblica, è più facile rendersi conto che le identità, i ruoli considerati per “natura” femminili, non sono maschere che si possono mettere e togliere con facilità, ma modi di essere che le donne hanno forzatamente e inconsapevolmente fatto propri... Non dovrebbe meravigliare il fatto che le donne, in assenza di altri poteri e possibilità di scelte, siano tentate di impugnare attivamente condizioni che hanno subìto, per trarne un vantaggio o quello che considerano tale: denaro, carriere, successo. Lo scambio sessuo-economico è stato da sempre presente nella relazione tra i sessi, nel matrimonio come nella prostituzione: alle donne veniva richiesto l’obbligo procreativo e una sessualità al servizio dell’uomo, e per questo ricompensate, con denaro, protezione, doni o altro. La domanda che oggi possiamo farci è se questa è libertà o una forma di “emancipazione malata”, come preferisco chiamarla. Il protagonismo del “femminile” non significa ancora la piena cittadinanza delle “donne reali”.
Cosa pensa del cosiddetto “50 e 50”?
Non ho mani pensato che la presenza quantitativa potesse produrre di per sé cambiamenti significativi nell’esercizio del potere, e oggi che questa richiesta viene generalmente accolta soprattutto in ambito amministrativo, ne sono ancora più convinta. La ragione è che le donne sono ancora lontane dall’avere un’autonomia di pensiero rispetto ai modelli imposti dall’uomo. Nei luoghi dove è più forte la visione maschile del mondo, i suoi linguaggi, i suoi saperi, le donne finiscono per assimilarsi, “neutralizzarsi”, o porsi come complemento o “valore aggiunto”, attraverso la messa in campo delle doti femminili tradizionali.
Lei che ha vissuto da protagonista il movimento delle donne, come vede i suoi obiettivi e il suo ruolo in un contesto sociale assai diverso da quello di fine anni '60, quando era nato?
Penso che oggi si può affrontare una crisi, che non è solo economica ma di un modello di civiltà, solo riprendendo le intuizioni radicali degli inizi: “primum vivere” - la vita, i bisogni, ma anche la creatività e tutte le possibili manifestazioni dell’umano, poste come fine e non come mezzo-, e “partire da sé”, mettere al centro la soggettività, l’esperienza personale, modificare se stessi per modificare il mondo.