Il corpo è un luogo di esperienze, è un processo dinamico connesso all’atto di esporsi e di “tendere” al mondo, è una biografia che rinvia alle influenze esercitate dall’ambiente, dalle credenze e dagli stili di vita. In questa ottica l’alimentazione diventa un strumento che permette di entrare in risonanza con i ritmi della Natura, di dialogare costantemente con l’Universo, condividendo atomi, molecole e vibrazioni.
La psicosomatica ci insegna che la paura e le tensioni interferiscono con il funzionamento dell’apparato digerente, influenzando il cosiddetto “secondo cervello” o “cervello enterico”: un complesso di cellule nervose (il suo numero è pari a quello del midollo spinale) in grado di mantenere una propria autonomia funzionale e allo stesso tempo di comunicare costantemente con il “cervello della testa” (un dialogo fatto di neurotrasmettitori, circa 40, tra cui la serotonina).
Il ventre, oltre ad accogliere e digerire il cibo, offre lo spazio attraverso il quale le emozioni incontrano il corpo; per questa ragione ogni frammento di cibo, ogni brandello di materia commestibile è carico di esperienze interiori e di significati simbolici sia individuali che collettivi. Non è un caso che la commercializzazione della carne, quale fonte di cibo e merce di scambio, è stata da sempre al centro di accese discussioni di natura etica.
Le parole della Bibbia confermano un atavico privilegio umano, un diritto di prelazione a nostro vantaggio: “Dio benedisse Noè e i suoi figli e disse loro: siate fecondi e moltiplicatevi e riempite la terra. La paura e il terrore di voi sia in tutte le bestie selvatiche e in tutto il bestiame e in tutti gli uccelli del cielo. Quanto striscia sul suolo e tutti i pesci del mare sono messi in vostro potere. Tutto quello che si muove e ha vita, vi servirà di cibo: vi do tutto questo, come già le verdi erbe” (Genesi 9, 1-3).
Nella scienza ritroviamo gli stessi principi: la sottomissione e lo sfruttamento della Natura e degli animali sono la diretta conseguenza del processo evolutivo, che segna in maniera definitiva l’affermazione e il dominio del genere uomo. Lo stesso Bacone era convinto che attraverso la conoscenza della Natura (induzione scientifica) e della sua progressiva “addomesticazione”, l’uomo avrebbe potuto riscattarsi dal peccato originale, in modo da riconquistare il controllo del paradiso perduto.
Tuttavia, il pensiero cristiano esprime anche un chiaro messaggio di non violenza: basti pensare a San Francesco e al suo sentimento di amore incondizionato nei confronti della Natura e di tutti gli esseri viventi; a questo proposito esistono delle interessanti analogie tra l’esperienza mistica del “poverello di Assisi” e gli insegnamenti del buddismo indiano. Molti testi sacri che appartengono alla tradizione orientale, come il Lankavatara, il Surangama e il Brahmajala, sono favorevoli al vegetarianismo. L’abolizione di qualsiasi forma di violenza (compresi il maltrattamento e l’uccisione degli animali) è in armonia con la Natura ed è consona alla “legge del Karma”, la quale mette in relazione il ciclo delle reincarnazioni con le azioni compiute e le conseguenze che ne possono derivare.
Anche il quinto Comandamento della religione cristiana intima di "Non Uccidere"; questo ammonimento perderebbe forza e credibilità se fosse circoscritto solo alla dimensione umana: ogni violenza perpetrata su qualsiasi essere vivente, che causa morte, ferimento e sofferenza, è un atto di grave sopraffazione. Dello stesso avviso è l’insegnamento del Vangelo secondo Giovanni, un testo apocrifo particolarmente importante per la tradizione Essena e alcune Chiese cristiane d'Oriente, dove una particolare attenzione è riservata al rispetto degli animali; in questo testo Gesù afferma: "Mangiate tutto ciò che si trova sulla tavola di Dio: i frutti degli alberi, i grani e le erbe dei campi, il latte degli animali e il miele delle api. Ogni altro alimento è opera di Satana e conduce ai peccati, alle malattie e alla morte". Numerosi Padri della Chiesa erano rigorosamente vegetariani, tra cui personaggi di spicco come San Pietro, San Girolamo, San Giovanni Crisostomo e San Benedetto, Sant’Ireneo, San Giustino martire, San Clemente e Sant’Eustazio di Antiochia.
Oggi, sporadiche testimonianze di scelte alimentari all’insegna della frugalità, del digiuno e dell’esclusione della carne, sono ancora rintracciabili in pochi ordini monastici, come quello dei Francescani, Trappisti, Certosini e Frati minini (fondati da San Francesco di Paola, da molti ribattezzato il “santo vegano”). La maggioranza dei credenti cattolici non opera nessuna distinzione tra un cibo e l’altro; questo atteggiamento è in linea con le direttive lasciate da San Paolo che nella prima lettera ai Corinzi esorta a mangiare qualsiasi tipo di cibo, lasciando da parte ogni problema di coscienza.
All’interno di questa visione, permangono le posizioni di una minoranza di cattolici osservanti, che considera l’astenersi dal consumare carne, in un mondo orchestrato in funzione dell’uomo, una scelta addirittura contraria al volere di Dio. La Chiesa Ortodossa greca, al contrario, ha mantenuto attive, fino a tempi molto recenti, precise indicazioni dietetiche riguardanti l’esclusione dalla dieta di prodotti animali (soprattutto carne) e il rispetto di periodici digiuni, in occasione di feste e speciali ricorrenze (ancora oggi nella repubblica monastica del Monte Athos i monaci seguono un’alimentazione esclusivamente vegetariana).
La storia è comunque disseminata di famosi “vegetariani laici”: basti pensare a Pitagora (i seguaci di questo grande filosofo si astenevano da qualsiasi forma di uccisione e dal mangiare animali di qualsiasi tipo), Plutarco, Socrate (la sua dieta ideale era composta di focacce di frumento e orzo, olive, formaggio di capra, cipolle, legumi, fichi, bacche di mirto e frutta secca), Leonardo da Vinci (egli affermava: "i nostri corpi sono sempre più le tombe degli animali"), J.J. Rousseau, Benjiamin Franklin, P.B. Shelley, Lev Tolstoi, Albert Schweitzer, Mahatma Gandhi e Albert Einstein.
Nutrendoci in maniera non consapevole, riusciamo a disconnetterci dalle conseguenze morali legate alle nostre scelte a danno degli altri esseri viventi e dell’ambiente che ci circonda. Distratti, apatici, facilmente manipolabili e cronicamente desensibilizzati, subiamo passivamente tutto quello che ci viene proposto e “imposto” dal consumismo di massa. In questi ultimi decenni la “questione animale” è esplosa in tutta la sua drammaticità: gli orrori degli allevamenti intensivi non possono essere considerati un male necessario per garantire il nostro benessere alimentare. Non è più tollerabile che degli animali (in particolare maiali, bovini e pollame) destinati alla macellazione o alla produzione di latte e uova, siano costretti a vivere in spazi ridottissimi, progettati per accogliere solo l’ingombro dei loro stessi corpi, nella più completa immobilità e in condizioni ambientali (assenza di luce e di ricambio d’aria) e igieniche deplorevoli.
I maiali in tenera età sono sottoposti a castrazione senza anestesia; i polli subiscono l’amputazione di parte del becco per impedire che si feriscano, a causa dell’aggressività maturata in spazi vitali insufficienti; durante la fase di selezione delle galline produttrici di uova, i pulcini di sesso maschile vengono scartati e triturati vivi in apposite macchine; i bovini costretti a un’alimentazione contraria alla loro natura sono nutriti forzatamente con mais e soia (essendo erbivori dovrebbero nutrirsi esclusivamente di erba); tale alimentazione è responsabile di numerosi effetti collaterali che accompagnano i processi digestivi: fermentazioni, gonfiori intestinali, infezioni e gravi stati infiammatori.
La somministrazione di ormoni, la forzata immobilità e le scarse condizioni igieniche, provocano gravi alterazioni metaboliche e una drastica riduzione delle difese immunitarie; ciò favorisce la proliferazione di infezioni, le quali vengono combattute con dosi elevate di antibiotici. Nel tempo alcuni batteri (in particolare Stafilococchi ed Escherichia coli) possono acquisire la capacità di resistere all’azione di un determinato antibiotico, mettendo in pericolo la salute di migliaia di persone (solo in Europa ogni anno si verificano 4 milioni di infezioni causate da batteri antibiotico-resistenti che causano oltre 40.000 decessi).
Per soddisfare i desideri alimentari dell’uomo, è stato stimato che ogni anno vengono soppressi (escludendo i pesci e altri prodotti marini) circa 56 miliardi di animali (8 volte la popolazione umana). Nonostante tutto, la “fame di carne” si fa sempre più pressante a causa delle richieste di paesi il cui livello economico e industriale è in rapida crescita, come Cina e India (questo dato appare ancora più allarmante tenuto conto che l’India è una nazione tradizionalmente legata a un’alimentazione vegetariana). Per forza di cose la gestione degli allevamenti intensivi comporta un elevato consumo di cereali (occorrono 15 chili di cereali e 15.000 litri d'acqua per produrre un solo chilo di carne) e, di conseguenza, la crescente richiesta di terre da coltivare provoca: diminuzione di biodiversità, frammentazione di habitat, inquinamento da fitofarmaci, depauperamento di terreni (perdita di materia organica) e aumento dell’emissione dei gas serra.
A complicare questo quadro, di per sé già drammatico, si sono aggiunte le recenti dichiarazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità riguardanti gli effetti cancerogeni della carne rossa; principale indiziato è il gruppo eme, una molecola contenuta sia nell’emoglobina sia nella mioglobina (proteina presente nei muscoli), capace di catturare l’ossigeno, essenziale per la produzione di energia. Diverse ricerche scientifiche hanno evidenziato una responsabilità diretta di questo composto nel determinare l’insorgenza di uno stato infiammatorio a livello della mucosa intestinale; tale alterazione, prolungata nel tempo, può favorire l’insorgenza di forme tumorali, soprattutto del colon-retto.
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