Una volta, da piccolo, durante una battuta di pesca, giunti al momento di una meritata pausa di ristoro, mio padre tirò fuori dal sacco delle vivande delle friselle e dei pomodori, invece dei soliti panini: rimasi oltremodo sorpreso! Fui ancora più sorpreso dall’azione successiva: prese una frisa per ognuno di noi e la bagnò in mare, facendo lo stesso con i pomodori che la andavano a condire. Non sapevo ancora di aver assistito ad un gesto secolare, stratificato nella tradizione. Ancora fino a qualche decennio fa, quando il mare non risentiva dell’inquinamento attuale, marinai e pescatori ripetevano lo stesso gesto, durante le giornate per mare.
La frisa è un prodotto di origini antichissime, forse addirittura il più antico, presente da sempre sulle tavole pugliesi, resistendo agli innumerevoli cambiamenti che le epoche storiche hanno proposto. Fino a qualche decennio fa, specialmente nei piccoli centri, dato che non c’era ancora un forno in ogni casa, vi era l’utilizzo dai tempi dei cosiddetti “forni di comunità”, dove ciascuna massaia portava al forno a cuocere il pane fresco e il pane secco, le frise appunto, in grado di resistere al tempo restando commestibili per mesi. Si tratta di un prodotto lievitato, parente stretto del pane, dal quale si differenzia per il sistema di cottura che conferisce alla frise la capacità di resistere al tempo.
Un’invenzione geniale nella sua semplicità, perché sfrutta un principio basilare per la conservazione degli alimenti: la disidratazione, cioè un processo di riduzione estrema dell’acqua presente in un alimento, acqua che costituisce l’elemento in cui gli agenti patogeni proliferano. Riducendo l’acqua si creano condizioni avverse ai patogeni e si aumenta la durabilità dell’alimento. E la disidratazione si ottiene con una doppia cottura.
Dopo aver dato la forma tipica all’impasto, costituito da farina, acqua, lievito e sale, si procede alla prima cottura, esattamente come per il pane. E quando per avere un buon pane la cottura sarebbe sufficiente, si tira fuori dal forno, si taglia a metà ogni forma e si rimette in forno, per un’ulteriore cottura.
Si tratta di un prodotto che è diventato sempre più insostituibile per i pugliesi, tanto da essere un must che non deve mai mancare nelle provviste dei tanti che vivono lontano dai luoghi natii e che ne fanno scorte per mesi. Del resto, la frisa è tradizionalmente un pane da viaggio. Grazie alla tipica forma, col caratteristico foro al centro, le frise erano facilmente impilabili e trasportabili, facendo passare un semplice filo attraverso quel foro. Per un pronto utilizzo bastava bagnare le frise con acqua a piacimento e accompagnarle con quanto fosse a disposizione: formaggi, verdure, legumi, pesce, anche semplicemente un filo d’olio.
Andava bene anche per la colazione, spezzettata nel latte a creare una zuppa nutriente, abitudine che ancora sopravvive: sostituto più che degno dei soliti biscotti e in molti ancora la preferiscono ad altri tipi di colazione. Per questa varietà di uso praticamente illimitata le frise ebbero un ruolo di primo piano nel vettovagliamento delle varie crociate, tanto da essere denominate “pane dei crociati” dalla gente di Puglia, dai cui porti principali, Brindisi ed Otranto, le armate si imbarcavano per raggiungere la Terrasanta. La frisa risultava importante per il sostentamento delle truppe fin dal viaggio per mare, che durava più giorni.
Per raggiungere la sua dimensione più alta e compiuta la frisa ha dovuto attendere che Colombo scoprisse il Nuovo Mondo, dal quale sarebbe giunto il pomodoro, che con la frisa si sposa alla perfezione, con un filo di olio ed un pizzico di sale. Questa semplice combinazione, favorita dal fatto che il pomodoro ha trovato nella terra di Puglia le condizioni ideali per lo sviluppo, è diventata patrimonio irrinunciabile delle tavole pugliesi, specialmente nelle calde serate estive, quando si cerca un pasto leggero e fresco. Pochi minuti di preparazione e il pasto è pronto, il perfetto salva cena per la vita moderna, caratterizzata spesso da tempi stretti.
Anche la semplicità può avere una piccola parte di ritualità. Infatti, per gustare la frisa bisognerà renderla più morbida bagnandola con dell’acqua, operazione che in salentino si traduce con sponzare la frisa. È un momento importante perché bisogna dosare bene l’acqua per evitare che la frisa si riduca ad una poltiglia poco appetibile. Per gestire meglio questa incombenza l’artigianato locale mette a disposizione lo sponzafrise, una ciotola con una copertura superiore bucherellata, sulla quale si adagia la frisa bagnata, permettendo all’acqua in eccesso di defluire nella parte sottostante.
Da segnalare una tendenza molto interessante degli ultimi anni, le frise prodotte con impasti diversi. Due per tutti: le friselline con cime di rape stufate e quelle alla pizzaiola, con cipolla, pomodoro e capperi. Queste ultime sono, per me, irresistibili con un semplice strato di gorgonzola o di stracchino. A parte il classico condimento pomodoro, sale, olio la mia variante preferita è: pomodoro, olio, acciughe, ricotta marzotica e rucola, una vera esplosione di gusto. Anche la frisa con stracciatella e salame piccante merita una menzione. Come sempre, spazio alla fantasia: la frisa può raccogliere praticamente qualunque sfida di gusto passi nella mente di ognuno, mantenendo le sue caratteristiche di versatilità che la hanno caratterizzata nel corso dei secoli.
Infine, un consiglio utile anche per ridurre lo spreco alimentare: se avanzano dei panini si potranno usare per avere una versione “casalinga” della frisa. Basterà tagliare a metà i panini, posizionarli in teglia con le parti del taglio verso l’alto e passarli qualche minuto in forno, modalità grill, seguendo con cura la cottura: appena le facce avranno raggiunto un colore dorato, quasi brunito, bisogna girare le fette e far andare giusto un minuto ancora. In questo modo avremo ottenuto un buon sostituto della frisa e avremo allungato la durabilità dei panini esattamente con lo stesso spirito con cui sono nate le frise.