Il suo è uno dei lavori più interessanti del 2016 e arriva a circa un paio d’anni di distanza dal precedente che aveva già fatto registrare consensi unanimi. Segnatevi queste coordinate e fatevi sorprendere da Il mese del rosario (Agualoca\Warner) nella superba interpretazione di Floriana Cangiano in arte Flo. Troverete in questo lavoro molte diramazioni ma una sola grande ispirazione da parte di un talento viscerale, passato velocemente dalla ribalta di Scugnizzi fino a spalleggiare Daniele Sepe e Stefano Bollani, in uno splendido concerto tenuto nell’ambito di Vicenza Jazz 2016.
Un’autentica folgorazione che ci ha spinto sulle sue tracce partendo dalle spezie di cui queste tracce sono composte andando a sigillare un album vibrante e ricco di malìa di un tale spessore da lasciare senza fiato per la facilità quasi irrisoria di abbinare generi e idiomi, nel più aggiornato spirito del newpolitan sound: “Si tratta di un lavoro - ribadisce - nato negli ultimi due anni, durante i nostri concerti, i nostri viaggi, le nostre prove e forse durante il mio ultimo trasloco che da una casa sul mare (dove scrissi D’amore e di altre cose irreversibili, il mio primo disco) mi ha spostata in una casa nel cuore storico di Napoli. Il primo lavoro nasceva osservando la linea marina all’orizzonte, liscia, immobile: un disco del viaggio sognato. Si trattava - continua - della mia dichiarazione rispetto a ciò che non-sono; era mettere un piede nell’acqua per sentire se è troppo fredda. Negli ultimi due anni Ernesto Nobili, Marco Di Palo, Michele Maione e io abbiamo girato l’Italia e l’Europa - siamo stati finanche a Capo Verde, ospiti dell’Atlantic Music Expo - abbiamo centrato “il nostro suono”; mi hanno mostrato che l’acqua non è troppo fredda”.
È stato come se l’orizzonte improvvisamente si schiarisse, una sorta di rivelazione…
Penso di sì. Adesso, dalla mia finestra la linea che delimita si è fatta frastagliata: ci sono chiese e bancarelle, palazzi su palazzi, motorini come saette, il contrappunto tra la banda e la radio neomelodica che fraseggia da ogni finestra aperta. La linea marina si è fatta di tufo. Il suono è diventato più scuro, più diretto; il racconto cronistico, fotografico. Il mese del Rosario è un disco che prova a raccontare le vite intorno a me, le dinamiche e le contraddizioni dell’animo umano, la memoria e l’identità di un luogo, il peccato e il pentimento. E io solo adesso me ne accorgo.
Fra Capoverde e Pianura, nel disco ci sono anche due adattamenti dal repertorio di Rosa Balistreri: la sua è una lingua meticcia. Che difficoltà comporta il passaggio dalla pagina scritta alla voce viva ed emozionante?
Nel 2005 il mio caro amico percussionista Michele Maione, e suo padre Franco - severissima memoria storica e critica di patrimoni meticci - mi donarono una raccolta di brani tradizionali. Ascoltai per la prima volta le voci di Antonio Piccininno, Matteo Salvatore, Sacco Andrea e molti altri. Il canto che sopra tutti mi prese il cuore a morsi fu quello di Rosa Balistreri in una struggente interpretazione di Signuruzzu chiuviti, chiuviti. Poco tempo dopo incisi quel brano in Tammurriata pe chi nun sente, un bellissimo disco di Michele Maione, appunto. Cercai qualunque cosa della Balistreri, ogni sua incisione mi dava risposte chiare, mi spiegava cos’è che in noi canta per davvero. Capivo per la prima volta cosa vuol dire farsi attraversare dalla parola scritta e restituirla attraverso la voce autentica, reale, senza artificio. Dimenticare la tecnica, lasciarsi vibrare, sentire che è il corpo intero a impastare il sentimento.
Quali sono stati i tuoi principali riferimenti\ispirazioni: quando e come ti sei scoperta cantante? E cosa rappresenta cantare oggi per te rispetto a quando hai iniziato?
Canto da quando ho iniziato a parlare. Per me cantare è la modalità di comunicazione primaria, un bisogno necessario. Sta accanto al bere e al magiare. Non ho mai sentito di aver fatto una scoperta. Per ragioni legate a una serie di sventure (con gli occhi di oggi ne scorgo il valore propulsivo), ho fatto sin da subito della musica un lavoro, un lavoro vero. Quando ho iniziato era tutto molto semplice: la mattina andavo a scuola e la sera cantavo. Il sabato spesso saltavo l’ultima ora per arrivare in tempo per l’ingresso degli sposi. Perché il sabato cantavo ai matrimoni, da aprile a settembre. Mi facevano un mare di richieste e io a 12 anni conoscevo già tutta la musica classica napoletana, Carosone, Modugno, Mina, ma anche My heart will go on. Mi pagavano, mi ringraziavano ed erano contenti. Tuttavia, la mia è stata un’adolescenza di grande solitudine: ero una ragazza arrabbiata, piena di collera, con sentimenti da furia. Eremita nella musica, iniziavo a innamorarmi di Veloso e Gil, Lhasa de Sela, Cesaria Evora, Chavela Vargas, Ella Fitzgerald e Billie Holiday, della musica di frontiera e di rivoluzione. Per fortuna, un giorno l’adolescenza era passata. Di quel tempo conservo capacità artigianale e certosina: la musica è impegno quotidiano, sforzo costante, costruzione di solidità, lavoro che nobilita e rende migliori.
La tua formazione si è realizzata attraverso diverse esperienze (lirica, musica antica, popolare, world)… Qual è il tratto distintivo che le ha unite secondo il tuo grado di sensibilità?
La verità. Sia essa complessità musicale, sia essa espressione popolare, mi interessa solo la musica che nasce da una verità. Mi sconvolge in questo momento Barbara Hannigan, ma allo stesso modo mi prende la maniera ritmica di Sabine Kabongo con Zawinul Syndacate o l’incommensurabile Nusrat Fateh Ali Khan messo in luce anche da Peter Gabriel. Mi piacciono i Police, Michael Jackson, Tom Ze, Fairuz, Matteo Salvatore e Ria Rosa. Tutte cose, dunque, che a diverso titolo attingono a una propria verità autentica e profonda. Con tutto ciò che è fuori da questo confine difficilmente ci incontriamo.
Sei nata a Napoli, ventre del sud, e lì ci vivi ancora, presumo con legittimo orgoglio. È notorio di cosa possa trasferirti in termini di ispirazione quotidiana… Hai mai pensato a cambiare aria proprio per lo stesso motivo?
Napoli è una città meravigliosa e io ho il privilegio di esserci nata, perché da forestieri abitarla è quasi impossibile. Tuttavia, se non avessi fatto la cantante non sarei rimasta qui; avrei cercato un posto che funziona, sano, meno contraddittorio. Per fortuna con la musica e il teatro ho sempre viaggiato molto e così mi piace tornare dove è la mia casa e la mia famiglia. Per adesso, con il mio moto da trottola, a Napoli ci sto bene, ho i miei musicisti, la mia etichetta e tutta la mia ispirazione. Quando verrà il tempo di andare, andrò.
Che tipo di lavoro hai condotto sulla tua voce per arrivare a questo livello di straordinaria duttilità?
Ho studiato lirica e poi canto corale al conservatorio. La porzione cristallina della mia voce proviene da lì. Sebbene non abbia mai desiderato una carriera nella lirica, mi divertiva studiare l’opera e comprendere i meccanismi di quel tipo di vocalità. Parallelamente ho sempre lavorato in ambito leggero utilizzando un’impostazione del tutto naturale, solo da grande ho preso lezioni di canto moderno mettendo a sistema tutto quello che facevo in modo istintivo. Di fronte ai limiti che avevo nel canto moderno utilizzavo espedienti lirici e poi mescolavo, attingevo da vari repertori, prendevo ovunque quello che mi serviva con l’unica finalità di realizzare un impatto emotivo su di me e sul pubblico. Un limite non solo può trasformarsi in una risorsa, ma divenire tratto distintivo e peculiare della vocalità. Fatto questo, viene la parte davvero difficile: cosa cantare. Un repertorio, un progetto, un suono, un produttore che sappia valorizzarti - Ernesto Nobili, il mio produttore in questo è un mago - un’etichetta che creda in te. Perché fare il cantante è davvero molto difficile.
Potresti riassumere le tappe salienti della tua carriera?
La prima volta su un palco importante è stata con il musical C’era una volta Scugnizzi. Fu un tour molto lungo e intenso, al fianco di professionisti come Claudio Mattone e Gino Landi; una grande occasione per apprendere la disciplina del lavoro in teatro. A questa esperienza seguirono molti incontri importanti. Sopra tutti quello con il percussionista Michele Maione - oggi parte insostituibile del mio quartetto - che mi iniziò allo studio dei linguaggi popolari; quello con il violinista Lino Cannavacciuolo e più tardi quello con Daniele Sepe, il mio vero maestro. Negli stessi anni ho avuto la fortuna di lavorare in teatro come attrice e cantante; sono stata diretta da Davide Iodice, Mimmo Borrelli, Sarasole Notarbartolo e nella prossima stagione da Alfredo Arias. Se Daniele Sepe ha legittimato il mio eclettismo, il teatro mi ha permesso di affinare l’attitudine ad essere filtro, a svuotarmi e a riempirmi, a sentire il corpo e a cercare costantemente un’interpretazione autentica.
Esiste una fatica nell'essere musicista\artista o tutto si sublima nelle emozioni che si riesce ad assorbire e a trasmettere?
Esiste una fatica, enorme, esagerata, che la passione attenua ma non cancella. Tutto per adesso è sublimato nel momento in cui scrivo e ancora di più nel momento in cui canto. I musicisti fanno un lavoro molto bello, utile, concreto, che serve, che ha un effetto sulle persone e genera molta felicità; per questi motivi non bisogna mai scoraggiarsi.
Quali sono le tue passioni oltre alla musica?
Viaggi, buona cucina - sia da fare, sia da consumare - e libri. Ho una passione per il salvataggio dei vecchi mobili in giro per mercatini e per gli uomini timidi ma con grande senso dell’umorismo.
Qual è invece il sogno che insegui e che vorresti realizzare?
Sogno una serie di duetti importanti, molto importanti, quasi impossibili, ma sognare non costa nulla. E poi una casa con finestre molto grandi e una famiglia numerosa.