Antonella Monzoni ha vinto il Premio Marco Bastianelli 2016 con il suo volume dal titolo Ferita Armena, giudicato il miglior libro fotografico dell’anno. “Ho visitato più volte l’Armenia, mi sono affidata agli incontri, alle visioni, al tormento dei paesaggi, alla bellezza antica e severa delle chiese e dei monasteri e ho sentito la forte necessità di identità culturale e religiosa della gente armena, unita alla loro profonda e quasi leggendaria tristezza” commenta la fotografa modenese. Antonella Monzoni pratica da sempre la fotografia di reportage profondamente umanista, con una spiccata cifra intimista, tesa all’assimilazione culturale del ricordo, e le immagini intense di questo lavoro rappresentano il simbolo di una sincera testimonianza nel territorio della memoria di un paese antico e colto, teatro di un genocidio che ha segnato un milione e mezzo di morti nel 1915.
Si aspettava di vincere questo Premio?
È stata una sorpresa totale, anche se una certa percentuale di speranza c’era. Ma il premio Bastianelli riceve così tanti libri che non ci contavo proprio.
Come mai l’Armenia è diventata una sua fonte di ricerca fotografica e quando ci è stata per la prima volta?
Sono arrivata per la prima volta in Armenia nel 2008. Io in realtà non ero andata per visitare solo l’Armenia. Ero andata per visitare il Caucaso perché mi lascio condizionare dalla musicalità dei nomi a volte, e Caucaso, per me, era una cosa magnifica, aveva una sonorità incredibile e in più mi interessava perché avevo già fatto diverse esperienze in Ucraina e in Russia e quel sapore, quel mood che si respira in quelle zone, mi affascinava moltissimo. Sono partita e ho visitato l’Armenia, la Georgia e il Nagorno-Karabakh ma è stata l’Armenia che mi ha richiesto di tornare. Per me è stata una sorpresa incredibile perché questo paese mi ha coinvolto da subito. Questo è un lavoro svolto tutto in analogico. Avevo con me nella borsa oltre la metà di rullini a colori un po’ condizionata dai consigli degli esperti photo editor che, durante gli incontri nelle redazioni, mi dicevano: "Si vende molto meglio il colore del bianco e nero e nei tuoi progetti cerca di seguire il percorso del colore". Ma l’Armenia, secondo me, non andava fotografata a colori e infatti usai tutto il bianco e nero possibile, addirittura usando il 3200 ASA di giorno. E me lo ricordo molto bene, perché erano le ultime cartucce che mi erano rimaste. Ma il richiamo dell’Armenia era continuo, mi raccontava se stessa passo dopo passo, attraverso i paesaggi, i colloqui con la gente e le conoscenze importanti delle persone in loco che mi hanno aiutata a scoprire la storia, a riconoscere la profonda identità culturale e soprattutto a scoprire le loro ferite più grandi e a trasmettere questo dramma. Io sono rimasta un po’ stregata. Se ci ripenso mi stupisco ancora e non so come mai io mi sia appassionata a questo paese, perché in genere per l’Armenia, fanno qualcosa solamente gli armeni. Io invece non sono armena, non ho né parenti armeni e nemmeno ho fatto studi armenistici. Quindi è stato un innamoramento spontaneo.
Come è avvenuto l’incontro con Antonia Arslan, scrittrice padovana di origini armene e autrice del bestseller, tradotto in 20 lingue, La masseria delle allodole (2004) sul dramma degli armeni, ambientato in Anatolia?
“Per assurdo io ho conosciuto il nome e la professionalità di Antonia Arslan in Armenia. Mi parlavano di questa italiana che stava facendo cose meravigliose per loro. E, quando sono rientrata in Italia, l’ho cercata a Padova. Lei mi ha ricevuto. Le ho mostrato il mio portfolio e il suo commento è stato: "Guarda Antonella io non capisco molto di fotografia ma ho la netta sensazione che queste foto siano eccezionali e trasmettano tantissimo soprattutto sulla questione armena e ti garantisco fin da oggi che io ti supporterò sempre". Ed è stato così. E la prima mostra l’ho fatta grazie a lei e proprio a Padova. Mi ha aiutato per i testi, collaboriamo in certe presentazioni e lavoriamo spesso insieme.
Il passato tragico dell’Armenia resta uno dei temi più scottanti e discussi oggi. Qual è la sua opinione?
È solo una questione politica. E forse sono la persona meno adatta a fare delle previsioni politiche. Però credo che sia una questione che non scemerà mai e ci sono delle realtà forti che lo riproporranno sempre. E alla fine, è vero, il popolo armeno non ha giustizia perché questa ferita non è chiusa ma ne avrebbe tutto il diritto per la sua memoria. A mio avviso, questo riproporre il problema è una cosa che può aiutare tutti per non far dimenticare tanti altri genocidi a volte più vicini dell’Armenia che sono avvenuti e che continuano ad avvenire. Io voglio anche ricordare a me stessa per prima, che i genocidi purtroppo continuano ma ci sfuggono e ce ne dimentichiamo.
Ferita Armena è sempre e sarà ancora occasione di mostre e incontri?
Con questo lavoro ho vinto a Vienna nel 2012 il primo premio VIPA, Vienna International Photo Award, il primo contributo per realizzare il libro. Poi ho vinto quest’anno il premio Marco Bastianelli. In realtà e in cuor mio, Ferita Armena lo considero un progetto chiuso. Non tornerò mai più a proporre fotografie su questo tema ma l’impegno che mi sono presa è quello di promuoverlo sempre, in tutte le occasioni possibili. E mi ha fatto piacere che alla consegna del premio a Roma sia venuto il rappresentante della comunità armena.