Veneta di origine e milanese di adozione dopo il suo intenso incontro con Giovanni Raboni, Patrizia Valduga è una delle più originali e appassionate voci poetiche contemporanee, con le sue raccolte, che vanno da “Medicamenta” (1982), “Donna di dolori” (1991), “Requiem” (1994), “Cento Quartine” (1997), “Prima Antologia” (1999), “Lezione d’amore” (2004), fino al “Libro delle Laudi” (2012); è traduttrice, fra gli altri, di Shakespeare, Donne, Molière, Mallarmé, Valéry, Kantor, ha curato l’antologia “Poeti Innamorati” e il “Breviario proustiano”, nel 1988 ha fondato il mensile “Poesia”. Come ha scritto Luigi Baldacci, la Valduga ha costruito i suoi versi con una metrica tradizionale “per poter incanalare la piena sensuale che traspare dalle composizioni poetiche e per attenuare il suo lessico estremamente crudo ed erotico… ” e il risultato è un linguaggio che “si uccide come antico e, risorgendo dalla propria spoglia, diventa moderno, e poi, da moderno, si ferisce ancora e ritorna antico …”. “Certo – conclude Baldacci – non ho memoria, tra i moderni, di un poeta che abbia allacciato così strettamente la propria urgenza di esistere con l’urgenza di dire e di dirsi.”
Può essere raccontata la propria storia attraverso la poesia? Possono dei versi accogliere, significare e prendersi cura di una vita? Sembra proprio che la produzione poetica di Patrizia Valduga assolva questa funzione, quasi una funzione materna, contenitrice e lenitrice di un’anima che “vagula, blandula” sta continuamente cercando la propria verità. Ed è allora che mi piace dialogare con lei ispirandomi ai suoi versi che mi risuonano come l’espressione incarnata di sé, che rappresentano la manifestazione intima della sua esperienza di vita, che sono il sonoro dei suoi pensieri.
Venite, endecasillabi, venite!/cercate ancora diligentemente…/La ragione si trova ragionando:/razzolate il recinto della mente!
Suona proprio come un’invocazione d’aiuto.
Non lo so; so solo che qui c’è la mia idea di poesia. Per me la poesia deve fare uscire qualcosa “di sano e di vero”, qualcosa che prima non sapevo, o non sapevo di sapere: è un messaggio di me a me stessa. E allora i versi sono come “angeli”, messaggeri…”.
Ma ogni notte facevo brutti sogni./Cosa non mi toccava di vedere! …/ sognavo mutilati, membra mozze…/…/facce sfigurate, spaventose…/ “Mamma, ti prego, non voglio vedere…”/Li portava da me, o me da loro/…/ “Su, Patrizia, sii buona, per piacere”.
Queste sofferte parole per introdurci agli albori della sua vita! Cosa si sente di raccontarci di lei?
Parlare di me è l’ultima cosa che ho voglia di fare al mondo; lo faccio nei versi e con i versi. Penso che soltanto la mediazione della forma renda sensate e sopportabili le confessioni, l’intimità.
Avessi mani sopra tutto il corpo/e labbra sulla punta delle dita/o fossi straripante come i fiumi…/inonderei di ferita in ferita/la vita che mi sfugge volteggiando/sopra l’infanzia sempre mai finita…
Il peso di un’infanzia pesante sembra impedire il contatto con l’esperienza del vivere…
Mah. Forse questa sensazione di “non vivere”, di “non vita” si ha quando viene a mancare… la vita, appunto; vale a dire il desiderio, la passione, la tensione verso qualcuno o qualcosa. Penso che questo possa capitare a tutti noi, indipendentemente dall’infanzia che abbiamo avuto.
Faccio a pezzi il mio povero pudore/mentre la notte versa il suo veleno/e scava macchie rosse nella neve…/Parlo come ubriaca …senza freno. Nel buio della notte si animano i fantasmi della mente…
Nel buio della notte la mente si riprende tutta la sua luce; e forse la poesia non è che un lampo di buio, che viene dal nostro essere più profondo.
E la notte si fa e si disfà…
Questo è un leit motiv nella sua poesia … ci immette nel mistero della notte…
Mi viene in mente il secondo atto del Tristano: “O sink hernieder o nacht der Liebe”. Ne ho anche fatto una quartina… Sì, la notte c’è sempre nei miei versi, e vuole dire il sogno – i messaggi che mandiamo a noi stessi -, e il piacere, e la morte…
Voglio scappare via da questo mondo…/trovare un altro modo per campare…
È stato possibile? Come?
No, sono sempre qui.
Megnaghi, Matte Blanco; Fachinelli…/loro non hanno sospettato niente…/li ho presi in giro …no, li ho depistati/con succedanee angosce del presente…
Sembra difficile potersi affidare o trovare qualcuno in cui depositare invece che depistare…
Ah, la psicoanalisi è stata una mia grande passione. Sa che ho studiato due anni medicina? Volevo diventare psichiatra, come tutte le persone instabili psichicamente. Non ci sono riuscita; però, quando ho abbandonato medicina e sono passata a lettere, ho incontrato Francesco Orlando e la sua “teoria freudiana della letteratura”...
E poi arrivano i “Medicamenta”…
I Medicamenta sono molto importanti, perché mi hanno portato da Giovanni Raboni, che ha buttato all’aria la mia vita e mi ha fatto diventare quella che sono.
Di tutto ciò far senza,/e del troppo sognare…/E sulla terra in levità passare.
Qui cosa succede?
Non so rispondere, mi perdoni.
Vieni, entra e coglimi, saggiami, provami…/comprimimi, discioglimi, tormentami…/infiammami, programmami, rinnovami./…Addormentami e ancora entra… riprovami./Incoronami. Eternami. Inargentami. Ed è così che la poetessa erotica/ha un erotismo che non ha due anni!/capisci, vero?, quello che ho capito …/e ci ho messo cinquantacinque anni…
L’incontro con le immagini erotiche cos’ha significato per lei? È stato scritto che la pregnanza del suo linguaggio erotico non comunica tanto il godimento, ma lo produce...
Credo di averlo detto molte volte: essere scrittori erotici non è indizio di salute sessuale. Le immagini contano molto poco per me: io vedo con le orecchie, come – penso - la maggior parte dei poeti. Sono le parole, e i suoni delle parole, ad essere erotici per un poeta.
Questa crocefissione senza croce/è come un lento percepirmi tutta,/scandirmi nella sua voce./Lui mi vuole distrutta,/mi vuole in suo potere,/ma insieme crocefissa al mio piacere.
Eros e Thanatos s'intrecciano in gran parte della sua produzione…
Santo Cielo, siamo passati alla "Lezione d’amore". Ma non è che una fantasia erotica: immagino di passare una notte con Sade, immagino quello che potrebbe dire… Quanto al fare, le assicuro che non mi dà nessun piacere provare dolore.
Tu ci sei, Giovanni, e non ci sei,/e mi tieni davanti alla paura./Non posso più scappare da me stessa:/mi scova ovunque la tua luce pura.
E qui svanisce l’imperioso bisogno di scappare… si percepisce intensamente un’altra dimensione…
Il bisogno di scappare dalla mia vita sociale, dalla vita cosiddetta letteraria mi è venuto quando Giovanni mi ha lasciata sola.
Può spiegare il significato del “punto di sella”, che lei usa spesso come momento magico della creatività?
Non amo la parola creatività: non si crea niente, tuttalpiù si rielabora l’esistente. Penso che sia una truffa dei mass media, per farci credere che possiamo tutti quanti essere poeti, scrittori, artisti senza studiare, da perfetti ignoranti. Quanto al “punto di sella”, ecco: amo moltissimo una quartina di Omar Khayyâm, l’ho imparata anche in originale, in farsi, e l’ho tradotta con l’aiuto di due donne iraniane, una regista e un’artista. Dice: “Se sono sobrio ogni gioia è proibita, / ubriacato, la coscienza è svanita; / ma c’è un punto tra ebbrezza e sobrietà: / lui mi possiede, lui solo è la vita”. Quando l’ho recitata a un professore di fisica, ha detto: “Ma è il punto di sella!”. E mi ha spiegato che il “punto di sella” è quel punto in cui due sistemi contrapposti stanno in equilibrio. È così: si sta bene, ci si sente vivi quando c’è equilibrio tra razionalità e sentimento o, per dirla con il più grande teorico della psicoanalisi dopo Freud, Ignacio Matte Blanco, tra logica asimmetrica e logica simmetrica, cioè tra le due logiche che governano la mente. E che cos’è l’arte, la poesia, se non questo punto di equilibrio? Si può dire allora che la poesia è “pensiero emozionato” o “emozione pensante”. Molti l’avevano intuito. Una della definizioni più belle è quella di Tommaso Ceva, del ‘700: “la poesia è un sogno che si fa in presenza della ragione”. E poi c’è quell’altra bellissima di Francis Bacon – Francesco Bacone – tra fine ‘500 e inizio ‘600: “la poesia è la facoltà di fare matrimoni e divorzi illegali fra le cose”. Ma anche Leopardi parlava di ‘animo in entusiasmo'…”
Per lei la “prigione” della forma sembra stimolare la più alta forma di libertà…
Non è un’idea mia, è di Stefan George, che scriveva alla fine dell’800: “Strengstes Maass ist zugleich höchste Freiheit”, il metro più rigoroso, più severo è al tempo stesso la libertà più alta. Sono convinta che sia proprio così: è l’ostacolo che dà forza, è l’impedimento che dà coraggio. Un metro severo mi costringe a cercare, a usare parole che non avrei mai pensato di usare. E così viene fuori – si libera - qualcosa che mi riguarda e mi sorprende, che mi aiuta a capire, e che quindi mi rende più libera. Perché, se non viene fuori qualcosa che mi sorprende, i miei versi non valgono niente per me, e meno di niente per gli altri”.
Ha scritto: “Voglio semplicemente le parole… ”
Io vedo attraverso le parole, per questo sono così importanti per me. Daniello Bartoli attribuisce a Socrate questa frase: “loquere ut te viadeam”. Parla, così che io ti veda. Amare le parole per me è amare la conoscenza, la comprensione, di sé e degli altri”.