Ci sono cose che, nell'arte e nell'implacabile funzionamento dei suoi meccanismi, hanno un prezzo elevatissimo: Mario Giansone pagò duramente la sua libertà poetica e la sua indipendenza dal sistema delle mode e del mercato.

Tanto per intenderci, stiamo parlando di un artista che non accettò di partecipare alla Biennale di Venezia del 1966 perché riteneva che non rendesse onore alla complessità della sua opera esporvi con pochi pezzi e che si permise di opporre un rifiuto alla corte che Peggy Guggenheim faceva ai venti bronzi che compongono la cancellata degli “Ideogrammi plastici sul tema del jazz”. Un “no, grazie”, c'è da scommettere, non necessariamente motivato dal fatto che non di un acquisto, ma di una donazione si sarebbe trattato.

È nota, del resto, la difficoltà con la quale lo scultore e pittore torinese (1915-1997) si separasse dalla sue opere: non alimentare il mercato è un altro dei “peccati originali” che determinarono la sua emarginazione dal circuito espositivo; ma lui stesso, del resto, non vi era attratto più di tanto. Vanno aggiunte altre caratteristiche dell'uomo e alcune circostanze, come la non acquiescenza all'establishment critico e collezionistico: si permise, nella sua prima e unica mostra personale, alla Galleria La Bussola, nel 1965 (a 50 anni suonati) di frapporre al testo di Giuseppe Marchiori, uno dei più influenti critici di allora, pubblicato in catalogo (un elegante volume disegnato da Ezio Gribaudo) una pagina piegata in cui spiegava “ciò che Marchiori non ha capito e con lui altri”; non cercava rapporti nei salotti con la comunità artistica torinese, disprezzandone alcuni esponenti; fedele assertore dei valori della forma e dell'intenzionalità quale atto primario della creazione artistica, non si allineò né all'informale, all'“art autre” portata in città dal maître à penser Michel Tapié.

Straordinario conoscitore di marmi, pietre, legni e metalli, non si fece mai dominare dalle suggestioni della materia pura e informe. La risposta, del resto, l'aveva già formulata nel citato, polemico inserto incollato nel catalogo della mostra alla Bussola: “la natura ha meno libertà di quanto non abbia l'arte, che è pensiero”, ovvero un irripetibile mix di progettualità e improvvisazione, proprio come in una composizione del suo amatissimo jazz. In natura, “lo sviluppo cellulare (…) è casuale di una casualità obbligata alle leggi fisiche. Nella teoria modulare (da lui formulata, ndr) vi è casualità, ma con rispetto alle leggi visive”.

Così, mentre ormai prendeva piede l'arte optical e cinetica e si affacciavano i primi segnali dell'arte povera, Giansone, alla personale del 1965, si beccava l'etichetta di “epigono” inflitta dal critico Paolo Fossati, che ne stigmatizzò, su L'Unità, la vocazione “archeologica” e ne citava, in tempi in cui la manualità diretta stava gradualmente tramutandosi in tabù, quasi un rottame sopravvissuto alla tempesta delle avanguardie, la capacità “artigianale di incisore di immani cammei, con un gran gusto nella scelta dei materiali, ma senza vero spazio scultorio”. I tempi, del resto, erano quelli: è vero che si era sopita la polemica tra realisti, sostenuti dal PCI, e astrattisti, ma va considerato che Giansone, all’epoca, aveva tra i suoi sostenitori gli industriali Agnelli e Mandelli. Di qui, probabilmente, non solo la pesante stroncatura, ma anche una clamorosa protesta, inscenata da alcuni giovani, con tanto di lancio di pomodori contro le vetrine della Galleria La Bussola.

Il mondo dell'arte contemporanea non contempla la dissidenza; e la pena inflitta ai disobbedienti è il silenzio. Ecco perché Giansone non trovò ostacoli al suo autoesilio. E di qui il merito dell'Associazione Archivio Storico intitolata all'artista di farne riscoprire l'opera: nel centenario della nascita, lo scorso anno, con un'antologica al Liceo Artistico (un tempo Istituto d'Arte) Aldo Passoni, dove l'artista insegnò dal 1956 al 1985; ora, sino al 25 maggio, con una retrospettiva a Palazzo Saluzzo Paesana, a cura di Giuseppe Floridia, autore di uno dei testi in catalogo (edizioni AdArte), che contiene contributi di Giuseppe Luigi Marini (che offre un ritratto dell'artista anche attraverso le vicende espositive), Cosetta Zanconato, Angelo Mistrangelo, Carlotta Fruttero, Marco Basso (sul rapporto con la musica), Enrico Debandi, Davide Alaimo (sull'arte applicata) e Monica Pontet.

L'armonia nascosta, che dà il titolo alla mostra (l'ultima approfondita indagine espositiva risale al 1997, con la bella rassegna curata a Torre Pellice da Piergiorgio Dragone), opportunamente scandita per temi più che cronologia, era l'ossessione di Giansone. Anagraficamente e culturalmente figlio della razionalità modernista, componeva per “sviluppo di moduli”, perché l'“idea figurativa”, scriveva, era una “progressione genetica”: il modulo (in genere un motivo grafico) come cellula primigenia che prolifera e si moltiplica è dunque, soprattutto, un metodo più concettuale che progettuale e che, allo stesso tempo, non inibiva, sotto la mano dello scultore, progressive e diverse soluzioni formali e compositive. Lo si legge bene, tra le 50 sculture esposte (insieme a 50 quadri e a 4 stupefacenti arazzi), soprattutto nei rilievi lignei, la cui traccia modulare è portata in luce nel loro non infrequente utilizzo come matrici per stampe xilografiche.

Ma non va dimenticato che Giansone cresce nella città dove avevano lasciato tracce profonde il Liberty e il Secondo Futurismo, interpretato da Mino Rosso. Sono retaggi importanti, cromosomi che si rivelano nei biomorfici, curvilinei volumi che danno vita e movimento alle figure femminili (Donna sotto il cespuglio 1950, sorta di Dafne torinese, o nella più tarda e ormai totalmente astratta La grande madre, 1982). Lo stesso, più volte ripetuto soggetto dei “Gatti” evoca insieme sinuosità Art Nouveau e dinamismi neofuturisti, al pari dei citati bronzi dedicati al jazz, laddove suoni e movenze di un quartetto danno origine a metamorfici ideogrammi, a “forme uniche”, per citare Boccioni, che inglobano lo spazio circostante e che nel contempo esaltano quella poetica dei vuoti e delle ombre (Giansone le intendeva alla stregua di “volumi”) comune a uno dei più alti interpreti della scultura novecentesca, come Henry Moore.

Insieme, musica e movimento fisico dei suonatori innescano metamorfiche figure: i musicisti assumono ora la conformazione della tastiera di una tromba, ora le fattezze di una misteriosa creatura (in un esemplare del '62), ora si bloccano nella staticità di un'architettura fantastica (in un bronzo del '58). Vengono in mente, a proposito di queste sculture, le osservazioni di Jean Clair sul modellato di Giacometti, rivelatore di “gemme di carne, (…) tubercoli di muscoli e di vene”. Ad esaltare il vibrante andamento della fusione in bronzo, le basi in pietra, marmo e granito.

Trionfo della dialettica tra pieno e vuoto, ombra e luce (caratteristiche, insieme al movimento, che Giansone metteva in grande evidenza anche attraverso immagini commissionate ad eccellenti fotografi, in un rapporto interdisciplinare che impegnò tanto Medardo Rosso quanto Brancusi) è Il pianista (1971), dialogo tra la primarietà di un monolite di granito e il ricercato “intaglio” di un blocco di botticino, scavato, levigato e “consumato” dall'autore sino a conferire al minerale la parvenza di un'impossibile transitorietà della materia.

Si tratta, nel contempo, di una di quelle opere che sembrerebbero dare ragione ai detrattori di Giansone, che lo relegano nella folta schiera di virtuosi artigiani prigionieri del loro saper fare. Un'interpretazione ingenerosa, nei confronti dell'artista torinese, perché ne trascura la portata visionaria. I rilievi, i glifi nel porfido e nel legno, nel quale lo scultore trae pretesto dalle strutture e dai simboli della modernità (cantieri navali, aerei, automobili in corsa) per articolare straordinarie sintesi formali, non sono soltanto attempate nostalgie futuriste.

Chissà quanta parte, nella formulazione di quelle stele, ha avuto la compresenza, a pochi passi dal piccolo studio di via Po, dello statuario del Museo Egizio e delle sue divinità: il fascino di quei rilievi è dunque scatenato dal corto circuito tra contemporaneità e archeologia, un contatto da cui scaturiscono una scultura “senza tempo” che, nella monumentale Opera Omnia, testamento spirituale cui Giansone attese per circa dieci anni, approda a esiti visionari e allegorici, ai confini di un'apocalittica rivelazione. Intorno al corpo di un uomo decapitato ruotano “pianeti” in graniti e marmi di varia estrazione (la policromia fu un aspetto per nulla trascurato da un artista che ben conosceva la magia dei marmi compositi della statuaria antica) a evocare, tra materia magmatica e misteriose scritture che solcano quegli astri, a partire dal big-bang, il ciclo della creazione del cosmo e la genesi della coscienza.

Emerge allora dalla mostra a Palazzo Saluzzo Paesana (e dalla sezione allestita presso il Gruppo Ersel, intitolata a La donna della domenica, una scultura che forse ispirò a Fruttero & Lucentini il titolo del loro celebre romanzo) un artista appartenente alla sua epoca, esponente di una generazione in cui era ancora bene impresso il messaggio lasciato dalle avanguardie storiche cubiste, costruttiviste e astrattiste, inclusa la capacità dell'arte e della decorazione di interagire con l'architettura d'interno (ed è un territorio, questo, ancora in parte da scoprire per quanto riguarda Giansone).

Non manca, nella sua opera, la riscoperta dell'arcaismo individuata da Arturo Martini quale via d'uscita dal tronfio monumentalismo ottocentesco: lo si vede in certe figure totemiche scolpite da Giansone (La crisalide, 1973), laddove i corpi si conformano in fregi e in sequenze architettoniche (Bagnanti seduti, 1963-64). Affiorano così radici storiche, come aveva già notato Piergiorgio Dragone, che spaziano dal romanico al mesopotamico, dalla scultura egizia a quella romana. E anche Giansone va a rintracciare, come inevitabile, il “principio genetico” di una testa umana in una colta rilettura del primitivismo picassiano.

Un artista del suo tempo, in sostanza, che però, proprio in virtù della sua coerenza, comportamentale e formale, rientra a buon diritto nella non folta schiera degli “irregolari” ed eccentrici torinesi, irriducibili a qualsiasi omologazione: l'architetto Carlo Mollino, cui dedica, diciassettenne, un ritratto; Carol Rama; lo stesso Mario Davico. È alla luce della visionarietà, che con loro condivide, che va “ripensato” il messaggio del misterioso e sulfureo artista, del rigoroso didatta, dello stravagante frequentatore di comunità esoteriche e sedute spiritiche, nella coscienza che, nella ciclicità della storia, anche dell'arte e della scienza, molto è destinato a riaffiorare, in temperie diverse, a secoli di distanza.

In una fase, come quella attuale, in cui anche il mercato va alla riscoperta dei grandi outsider del '900, basti pensare, per quanto riguarda Giansone, a come il “vuoto” sia tornato, come inevitabile, rovello di parte della scultura contemporanea; a come gli storici dell'arte e i curatori siano tornati a rivalutare l'esoterismo tra le sorgenti dell'astrattismo e a come il biocentrismo abbia riportato in onore le efflorescenze liberty (lo si vedrà in maggio in una mostra alla Galleria Civica d'arte moderna e contemporanea di Torino). Giansone lavorava su questo versante attraverso i rischi e le incognite della “scultura diretta”, quella “senza rete”, senza bozzetto che non fosse l'idea.

Un'idea così potente da poter scatenare la scultura così come lui la intendeva: non come atto esecutivo ma come evocazione, o meglio un “processo irreversibile di genesi plastiche”.

Testo di Franco Fanelli