Che cosa ho fatto in questi quindici anni?
Niente. So solo che alla fine di settembre, nel 1996, ero in studio e stavo mangiando un grappolo d’uva; ne ho staccati tre chicchi e li ho appoggiati su questo tavolo bianco, ora come allora carico dell’utile e dell’inutile. Con quel gesto so che la mia vita ha cambiato direzione. Oppure desideravo cambiare direzione e così ho compiuto quel gesto. Comunque sia, mi sono scrollata di dosso la polvere nera degli “Intoccabili” e sono passata, come mi ha detto Anna, “dall’inferno al paradiso”.
Quel pomeriggio, che cosa ho fatto di tanto importante? Ho fatto una piroetta e sono passata dalle tenebre alla luce. Ho aperto gli occhi su tre chicchi d’uva e mi sono chiesta se attraverso qualcosa di molto semplice, sarei riuscita a dare risposta alla mia passione. Stavo mangiando il mio frutto preferito, ne ho lasciato cadere tre chicchi e sotto il pennello li ho fatti germogliare. Per realizzare tutte le potenzialità dell’uva mi sono abbandonata all’acqua. Perché da quel giorno, qui, seduta al tavolo bianco, si consuma il mio incontro-scontro con acque diverse.
All’inizio il pennello controlla piccoli flussi, rivoli, poi sotto la mano scorre un’acqua piena di luce e di colore che prima non esisteva. Sono nati così i tre chicchi d’uva. Sono nati da luci e ombre che creano arcaiche lontananze.
Per me un luogo d’origine. Una natività. A questo punto si può pensare che io stia esagerando: tre chicchi d’uva sono pur sempre tre chicchi d’uva. Quasi nulla. In realtà quei tre chicchi d’uva - nulla - hanno segnato in me e nel mio sguardo una rivoluzione. Voglio dire che spesso ci accade di vedere, nelle cose, solo la superficie: la realtà ci appare così come non è. E quel poco che vediamo spesso ci sfugge, non rimane in noi. Ecco, non ci colpisce. Il mio sguardo, quel pomeriggio di fine settembre, ha rivisto in quella cosa uno stato di appartenenza, un’antica parentela. Mi ci sono riconosciuta. Sempre per via di quello sguardo amorevole, sul mio tavolo bianco sono poi arrivate meline selvatiche, arance, mandarini, nespole, limoni, rose antiche, tante salvie, tulipani, arnica montana e altre ancora, per le tavole botaniche. Da quel pomeriggio il mio processo creativo nasce al mercato di fronte alle bancarelle della frutta e della verdura: piramidi arancioni, verdi, gialle, vicino a praterie verdi e rosse. Scelgo lì il mio frutto di stagione. Il mio occhio è già in azione, vede dentro di me quel che occorre per fissare la cosa in stato di verità - la cosa in sé - e la mano sceglie. Per rappresentare la mia genia non occorrono piramidi o praterie, ma il gesto semplice che accoglie un frutto o erbe aromatiche, piante e fiori.
Da un frutto a un fiore ho poi iniziato a indagare sempre più in profondità. Con la lente d’ingrandimento ho tentato di rivelare le minime circostanze di un mondo naturale intricato e luminoso. Contemporaneamente ho continuato la strada del manoscritto e dal desiderio di far convivere nello stesso lavoro, in reciproche intimità, scrittura e vocabolario botanico, sono così germogliate grandi pagine che evocano le antiche miniature. È il 4 marzo 2009, piove a dirotto e io sono qui, inchiodata al tavolo bianco e forse non è un caso.