È questo un tempo nel quale le vecchie ferite che hanno lasciato cicatrici profonde nel cuore dell’Umanità sembrano farsi nuovamente doloranti: la nostra sensibilità è messa alla prova, ci pare di essere trascinati oltre i limiti di ciò che l’intelletto e la ragione possono accettare, siamo impauriti dalla crudeltà del vero che appare sempre più ineluttabile, che ci avvolge, ci sfiora, quasi ci insegue lasciandoci attoniti, incapaci di opporci, di resistere, con un sentore di pericolo, una percezione di oscura minaccia, e, soprattutto, un disperante senso di impotenza.
Ed ecco allora che ci ritroviamo a parlare di guerra, di vendetta, di una giustizia che esige distruzione e morte, di ordine ristabilito con le armi, di orrore che sfida e scardina le certezze giustificando ogni genere di risposta.
Tutti pensieri che fanno crescere una condizione di malessere, quando non di vera malattia, una malattia dell’anima lacerata dalla fatica di individuare la differenza tra il desiderio soggettivo di trovare serenità, quiete e armonia e l’obbligo di rimanere parte attiva in un contesto sociale che affonda radici nella sopraffazione e nella diseguaglianza ridotta a sistema.
Anche quella dell’anima, come tutte le malattie, è uno squilibrio, la rottura di uno stato di grazia in cui ogni respiro respira con l’Universo tutto, generando il soffio che guarisce. La malattia, come scrive E. Bach, “non è né vendicativa né crudele, ma è lo strumento adottato dalla nostra anima per indicarci i nostri difetti, per prevenirci dal commettere errori più gravi”, e , “la vera guarigione può essere ottenuta non tramite il torto che respinge il torto ma solamente con il giusto che prende il posto del torto” [1].
Che cosa è dunque “il giusto” che può aiutarci a stendere balsamo rigenerante sulle antiche ferite, a lenire il dolore provocato dall’indignazione e dal rifiuto di ciò che vorremmo non vedere, non sentire?
Vivere fino in fondo le emozioni, comprendere che il nostro accettare di essere vulnerabili al dolore apre una via di guarigione, cercare un tipo di consapevolezza che vada oltre l’intelletto e sia frutto di una profonda esperienza di compassione è certo una via sulla quale incamminarsi per non essere travolti da schemi di pensiero che tolgono forza alla nostra intenzione di Bene.
Applicare un principio di saggezza e di bellezza alla realtà per poter guarire la disperazione.
Esistono parole preziose che sono state vittime della separazione ormai completamente acquisita fra il campo religioso e quello estetico, parole che vanno riscoperte come veicoli per salvaguardare il compito che ciascuno può assumersi nei grandi accadimenti che scorrono davanti ai nostri occhi come rapide apparizioni, prive di ogni altra incidenza esperienziale che non sia il guardare e l’ascoltare mediati dallo schermo o dalla carta stampata.
È così per la preghiera, per la pietà e per la carità che è benevolenza. Nella visione di un’estetica ricondotta alla sua originaria etimologia di “percezione attraverso i sensi” o di “scienza della conoscenza sensibile” come la si definiva nel Settecento, possono essere liberate da una connotazione religiosa per tornare ad essere terreno di un sentire e di una pratica individuale che è forza di guarigione.
In questa visione dell’estetica non più riferita all’arte bensì alle emozioni è importante alimentare la creatività come disponibilità a lasciarsi attraversare da ciò che vuole esprimersi tramite ciascuno di noi.
Bisogna dare nutrimento alla Bellezza per poterla riconoscere, per poterne fare esperienza come avviene per la Poesia: “ …quando si legge una poesia distesi nel silenzio più completo, ogni immagine suscitata dalle parole è significativa solo in quanto fa riferimento a tutte le esperienze vissute un giorno in situazioni concrete sufficientemente analoghe all’immagine poetica da renderla comprensibile dal punto di vista intellettuale” [2].
C’è un sapere al quale dobbiamo attingere che travalica l’informazione ormai divenuta un sistema uniformante nel quale perde di valore l’emozione che ciascuno prova in relazione al proprio sistema interpretativo degli accadimenti, quella affidata prima ai nostri sensi e poi all’immagine simbolica elaborata dall’intelletto, per lasciare spazio alla risposta collettiva, espressione di un adeguamento a schemi che cercano di “metterci al passo”, e non è a caso che l’espressione appartenga al linguaggio militare, di ricondurci ad un ritmo, ad un modo di percepire che sembra identificarsi sempre più con la musica martellante che accompagna ormai parti crescenti del tempo del vivere, una musica priva di sfumature, incapace di respiro aperto, di visione luminosa.
L’uomo è la sola creatura su questo pianeta che possa formulare un giudizio di valore e dunque gli appartiene la capacità di scegliere e di tornare a cercare vie che ristabiliscano equilibri che sembrano perduti.
Possiamo rieducare i nostri sensi alla percezione del Bello, nutrirli con la gentilezza, la grazia, il perdono, l’indulgenza, la pazienza.
Possiamo ampliare la nostra sensibilità attraverso l’attenzione, il rispetto, la calma, il buon cuore, un’espressione dimenticata e potente proprio come una benedizione, se è vero che “dire il bene” è dare voce al sentimento di un cuore puro.
Possiamo ritrovare la nostra armonia con la musica dell’Universo che vibra all’unisono con il nostro respiro e donare alle nostre orecchie la piacevolezza rasserenante dell’eufonia.
Possiamo rompere l’abitudine ad una sorta di “meccanizzazione” dei sensi che faticano sempre più a funzionare come organismi vivi, liberi, mutevoli: ascoltiamo in cuffia con un udito artificiale, guardiamo la preparazione del cibo sullo schermo privati dell’olfatto, gli odori che sentiamo sono globalizzati al punto da non lasciare più spazio alla consapevolezza della differenza, la vista è quella mediata dallo smartphone. Viviamo coperti da una sorta di cappa che altera la nostra sensorialità e la dispone a un controllo che ha a che fare con la manipolazione dei comportamenti, che modifica i ritmi naturali.
Possiamo salvaguardare la complessità dei nostri sensi interrompendo le abitudini che li rendono “ricettori” predisposti a reazioni prevedibili quando non obbligate, possiamo rieducarli all’autonomia delle emozioni.
Possiamo tornare ad immergerci nel grande oceano della vita, lasciarci incontrare dal mistero, riscoprire il piacere di stare nelle cose con verità.
Da principio avremo l’impressione che non ci sia legame fra il nostro sentire e la nostra capacità di agire sul sociale, di modificare la realtà, ma con il tempo, con la perseveranza riusciremo a percepire la forza del ritrovato ritmo, di un equilibrio che è fioritura e mutamento, che è fertile terreno di trasformazione.
C’è un tempo del dire e un tempo di restare in silenzio per poter ascoltare il racconto del cuore che ha attraversato infiniti mondi e ci ricorda la nostra appartenenza all’incessante ciclo della Natura.
[1] E. Bach, Le opere complete, Macro Edizioni
[2] Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola II la memoria e i ritmi, Einaudi