Lo Spirito volse lo sguardo all’acqua e questa si mosse e ribollì in onde spumeggianti e precipitò rombando negli abissi che spalancarono le loro nere fauci per ingoiarla avidamente.
(E.T.A. Hoffmann, Il Vaso d’Oro - Terza Veglia)

Nella luce crepuscolare del giorno di riposo i Portatori d’Ombra rivelano le potenze ofidiche che rigenerandosi, omaggiano i sonnambuli terrestri dei lucenti gioielli d’Atlantide. La Madre, così, porge in dono alle tre figlie la dote per lo sposalizio, i semi più belli e più brutti del melograno per la rinascita. L’Anima da recuperare in una coppa d’oro inabissata all’aurora.

Le figlie d’amarillide sono profetesse d’agnizione, maestre di resurrezione… Annegano serpentine per immersione naturale e riemergono mascherate dopo il bagno del sabato purificatore, forse al tramonto. Attenzione a non commettere il sacrilegio di Psiche; l’infrazione del tabù costa un urlo di vendetta che mette ali d’addio, perché la conoscenza del fiore segreto non è data agli esseri di questo mondo. Oltre lo specchio, al di là del velo, è impossibile riuscire a vedere un notturno. Varcare la soglia dell’occhio cosciente è rischioso, pena financo ad una morte… Aprire gli scuri della mente per illuminarla è partorire, per ricordare perendo nella rinascita a un’altra vita.

L’anima che, immersa nell’acqua, si rivede nell’ombra s’annichilisce. Nuda non osa mostrarsi, non pronuncia il suo nome, né le sue età. Il silenzio è la legge di natura, la sua volontà, che non è dell’umana ragione, un arco sempre teso. L’anima che anela all’anima, il desiderio che si desidera… Il riflesso del volto dell’alatissimo mostro, che muove ad amore la natura tutta, non è da specchiarsi, non può riconoscersi nella freccia che scocca.

La rottura del patto ombroso con le figlie della luce, la violazione degli spazi elementari in cui esse solitarie si muovono ricreandosi, la visione dei loro misteri, comporta la scissione del contratto originario di rimozione razionale e il conseguente intraniamento animico. Accettare un iniziatico dono aureo equivale a scomparire da quel mondo che l’uomo ha costruito per dimenticare la violenta caduta, lo schianto sul pianeta. Guardare Eros nei suoi occhi di brace è come sprofondare nella quintessenza della separazione, nel destino di solitudine universale.

Accarezzare il cervo, dormire con la tigre, correre con la loba sono rivelazioni dell’arte e del sogno. Abbiamo lasciato una coda di pelli squamate sul sentiero, per non sentire più il grido assordante del parto atavico. Abbiamo messo due piedi di cemento gravitazionale per allontanarci dalla luna, ma il richiamo della lacerazione originale ci arriva come un’eco di sangue istante per istante. Mese dopo mese il filo rosso delle maree c’intesse di ricordi… Sorelle di antiche sirene, figlie della stessa madre. Madri di madri, tessitrici intente a riparare lo squarcio irruento di una mala stella, questo sole da mortali!

Erigiamo castelli incantati e abbazie nel silenzio del vespro con salmodie profane per comprarci la vita, per meritarci l’anima attraverso i rosoni. Ci vestiamo di bianche litanie per coprire l’eresia della nascita e intanto diamo la morte al feto ad ogni giro di giostra, come moire, siamo il fato e ci chiamano fate. Affioriamo dall’acque ed è lo scandalo dei nostri seni con turgidi capezzoli e del ventre rigonfio di speranza! Al mercato hanno inventato Maria Vergine, urlato ‘alle immacolate mutande’! Ci hanno tagliato la coda, bruciato le carni e imbacuccate da suore. Abbiamo dovuto imparare a volar via, a danzare coi capri e a parlare come gatti.

L’offesa esige vendetta. Una scomparsa per un’epifania violenta, uno scossone nella bellezza della sua nuda verità, che sia di pesce, d’uccello, di serpe, ctonia, elementare, celestiale… Un corpo di meraviglia nella naturale animalità dell’urlo viscerale. La ieraticità delle statue sepolte nella sabbia, nascondiglio dei bei peccati, come icone nei boschi sotto terra piantate alle radici dell’Albero degli alberi, che ci scorre pelle vene, dentro e fuori ci attraversa tutte coi suoi rami d’universo, che ci suona come fiato d’un flauto, quando calmo, come rullo di tamburo quando inquieto.

Celiamo le ceneri del mistero e le cingiamo di cipressi. Ci veneriamo mute e tempestose, e ci dipingono di gesso con al capo una corona di spine di rose. Guardiane delle fonti rimirate nei dipinti, che agiscono l’uomo nel desiderio che non possiede, corroborate e vivificate d’amore, mosse dalla matrice, la genitrice che riposa nell’uovo di fuoco. Dispensatrici del germe della veggenza e della follia seminale, figlie di Mab che galoppa tutta la notte nelle teste degli amanti, la grande levatrice dei sogni. Oh Diotima!

Assisa Madonna delle caverne, dei boschi e delle fonti non svegliare il povero Anselmus, ma graffia alla mia porta aperta. Dammi sette veglie in sonno, che io possa scorrere gli orologi del tempo e rivedere l’amore c’ho perduto, il sentiero senza passi dei tuoi sassi, come attimi nelle tasche. Portami giù in fondo, respingimi in acqua. Portami via da questa morte d’uomini. Riconsegnami all’immemore ricordo, per l’arte dell’ave che furono, al grembo di mia Sorella. Così all’indietro in avanti nella pancia del mare.

תבש

Testo di Emmanuela Pezza B.