Sul foglio c’era ancora un po’ di bianco. Le narici no, quelle te l’eri ripulite anni prima, quando il vecchio Lászlo stirò le zampe sul sedile posteriore della tua Peugeot. Quel figlio di puttana ungherese – capelli biondi lunghi un poco stempiati, zigomi sorretti da affossature tipicamente nordiche e sguardo gelido a turbare una debolezza lievemente tesa – l’avevi visto per la prima volta mentre tentava di rimorchiarsi quella che poi sarebbe diventata sua moglie, un’austriaca di origini inglesi dalla bellezza vergine e la cadenza pietrificante delle espressioni.
Si chiamava Tess e in sé covava un certo istinto a sembrare una di quelle che non appartiene a nessuno, per come fuggiva dalle attenzioni e affidava al destino di incompletezza la sua identità fatiscente e confusionaria. Non aveva avuto né madre né padre e quest’assenza aveva contribuito al fiorire dell’amore con Lászlo, che in lei aveva scorto subito una luce improvvisa elevandosi a dolce paladino della sua persona. Benché complici sin dai primi istanti non durò molto, all’incirca tre anni di matrimonio vissuti fra domande rimaste tali e risposte disinteressate, fino a quando lei decise di scappare a Los Angeles con un miliardario di Venezia che organizzava sfilate di moda da una parte e dell’altra del mondo.
Ti rimarrà impressa sempre l’immagine di quel giorno all’Hotel Suspiria, mentre servivi Bourbon e Caipiroske a un gruppo di finanziatori thailandesi, con Lászlo che si alzò dai divanetti per andarle a sussurrare qualcosa all’orecchio. Cosa di preciso non te lo dirà mai, ma Tess in quel momento scoprì un sorriso che nemmeno lei immaginava di avere. Stava leggendo una rivista sul cinema francese degli anni ’60 e mai avresti scommesso un centesimo su quel figlio di puttana rozzo e trasandato che all’apparenza non aveva carte da giocare. Tutto invece si concretizzò alla perfezione, da quel giorno l’illusione sarebbe andata in carrozza e, senza che se ne accorgessero, li avrebbe trasportati nella loro bugia più grande: l’eternità.
A quel figlio di puttana poi hai finito per voler bene come fosse un pezzo delle tue gambe. Era bastato entrare un minimo in contatto con la sua psicologia per capire che a quei tempi Lászlo già soffriva se stesso e le mille sfaccettature annesse. Troppa gente sbagliata, troppe poche parole, troppe esperienze altanelanti. Fotografare, che era la sua vita, lo vedeva alternarsi fra grandi idee e periodi di noia che gli impedivano la ricerca continua di un filo comune. Pochissimi scatti, sempre decisivi: questa era la sua “filosofia”, quello che il talento pretendeva e che era necessario imporsi. Lászlo era uno di quegli artisti insicuri ma perfezionisti che più sono severi e patologici con la loro creatività più vivono sotto la possibilità di un blocco che li alleggerisce fino allo zero.
Lo sdoppiamento viscerale della sua personalità lo coinvolgeva anche nei contesti più ordinari, dove si mostrava emotivamente incostante e silenzioso e se parlava più del solito ci facevi subito caso; anche quando parlavamo per un tempo prolungato si notavano spesso i suoi disturbi di concentrazione, o quando nonostante ti guardasse negli occhi facendoti credere di stare ad ascoltare, in realtà ti stava solo fissando mentre pensava ad altro. Lui era così, frapposto nel mare dei contrari, con la sua arte più intima e nei rapporti più stretti: solamente istinto e senza alcuna volontà di mezzo, illogico e indiretto, e se non trasudava empatia ti ignorava come se non ti avesse mai visto.
D’altronde erano state proprio le crisi di umore violente, gli isolamenti inspiegati e le indifferenze reiterate a far allontanare Tess, che nell’ultimo periodo era un miracolo se tornava a casa a dormire. Una notte su due scavalcavi il cancello della loro villa per intascarti la roba che Lászlo ti nascondeva sotto lo zerbino della stanzetta in giardino e notavi che la macchina di entrambi non c’era quasi mai. Lui aveva già cominciato con quella che amava chiamare vitamina C, perché diceva che lo faceva sentire meglio e che gli dava nuove energie e aria al cervello, col piccolo particolare che tutta quell’aria immessa poi se ne andava tanto velocemente da creare un vuoto rumoroso e da chiamarne immediatamente altra, un’altra e poi un’altra ancora.
Ecco perché quella sera non ti saresti sorpreso più di tanto di vederlo collassare se non fosse stato che te ne accorgesti dallo specchietto della macchina, quando ti apparve la sua faccia impestata e la bocca ricoperta di sangue e di una sbobba bianca che ancora oggi porti nelle lacrime. La musica era alta, con voi c’era Jackson-il-tuo-vicino-di-casa e la musica vi impediva di capire perché quel figlio di puttana non seguiva più le vostre risa scoppiate e prive di qualunque sensibilità al rumore. Credevate che si stesse acchitando la solita montagnetta di Bianca, tant’è che lo incitavate ad aumentare la dose perché sapevate che a lui le strisce abitudinarie facevano il solletico. Ma non c’era bisogno, Lászlo aveva già tratto il dado. Metterlo in piedi e infilargli la lingua esanime in bocca servì solamente a incorniciare un dramma simbolico. Si strinse attorno al tuo bacino come una bambina carente di affetto, era ancora vivo, ma poi si sgonfiò a terra come un palloncino. Non respirava più.
Si era innamorato di quella roba con lo stesso sguardo sincero e determinato con cui aveva guardato per la prima volta Tess, che dal canto suo faceva finta di niente e pensava esclusivamente alle mondanità di turno e alla sua carriera ormai in trampolino di lancio. I book fotografici andavano una meraviglia, le richieste di lavoro si moltiplicavano così come gli occhi dei corteggiatori. Secondo Lászlo avrebbe fatto la classica carriera da modella inutile che un giorno sarebbe diventata quella di un’attrice mediocre: benché considerasse puttanate da prendere e lasciare via la maggior parte delle cose che la vedevano impegnata, Tess non indietreggiava mai. Gli anni al collegio da orfana le avevano incorporato una certa durezza, un modo di trattare gli screditi e le imposizioni con orgoglio sfrenato: l’avevano semplicemente resa una mina vagante.
Di contro, come per vendetta, aveva smesso di ascoltarlo. Non sopportava più la pesantezza in cui gongolava di malinconia, le sue polemiche da artista e critico sulla contemporaneità a tempo pieno, nemmeno quando parlava della sua ambizione più grande, quel fotoromanzo ancora irrealizzato che era nato in parallelo al loro matrimonio e che l’aveva trasformato in quello che lei considerava oramai un mostro cieco in preda ai complessi di vanità e alle manie di successo. Arriva un momento nelle coppie dove il punto di rottura è quanto mai visibile e imminente ed è rappresentato dal confronto negativo dei sogni dell’uno e dell’altro, nel quale la parola disprezzo e possesso dell’ideale sostituiscono l’etica della condivisione e dell’altruismo a prescindere dall’obiettivo. Tess lo sapeva e acconsentì al guasto spezzando la corda per prima.
Lászlo era completamente fissato con La Jetée di Chris Marker. Ricordi le serate trascorse a parlare di cinema e alla necessità di andarci piano con tutto quel sapere, che sapere non era mai perché era diventata una dipendenza anche quella. Più film vedevate più film avevate da vedere, più di libri discutevate più della vita vi sentivate particelle deliranti ed estranee. Quando Tess se ne andò non cambiò nulla. Lui si rifugiò per sei mesi nella tenuta di campagna della nonna a completare il fotoromanzo, mosso come da una rivincita personale che riguardava più il suo ego che il dispiacere di essere stato abbandonato. Lì diceva di potersi rigenerare grazie al clima e ai suoni della natura e soprattutto per l’atmosfera che regalavano le piccole cose, ma quell’essere se stesso finì per risultare inconsapevole recitazione dato che nel cuor suo sapeva già di aver perso contatto con la normalità.
Quando tornò in città c’era ancora lei ad aspettarlo, la vitamina C. Conosceste Jackson, un tossico colombiano con cui fu amicizia a prima vista e grazie al quale rimediavate roba tanto buona quanto forte. Diventaste inseparabili e fra di voi si creò una sorta di familiarità che vi portava ad avere un occhio sempre di riguardo verso l’altro, come se nello spirito di fratellanza immunizzaste la gola delle vostre colpe. Eravate dei morti che si tenevano per mano. Tranne che per Lászlo, valeva sempre la regola di rimproverare chi dei tre stava esagerando. Lui rappresentava l’esempio e al contempo la paura, perché tirava il doppio e a volte ci beveva anche sopra ma se tu esageravi era il primo a notarlo e a dire di farla finita. Lászlo non si convinceva mai di essere un pazzo disturbato, ma non esitava a definire allo stesso modo chi sembrava come lui.