È tornato in edicola Italo Calvino con Il barone rampante: capolavoro della letteratura italiana, pubblicato nel 1957 e ridotto da lui stesso, due anni dopo, in versione per ragazzi. In questa versione, che lascia intatte le qualità, le suggestioni, la magia del racconto e della scrittura originari, è riproposto dall’editore Centauria nella collana Grandi autori per giovani lettori con i divertenti disegni di Maria Enrica Agostinelli: un libro dalla veste grafica attraente, di quelli che si leggono anche a letto senza paura di scompaginarlo con posture rischiose. È una fiaba, dedicata forse più agli adulti che ai bambini, che non ha perso nulla della sua brillante freschezza a sessanta anni dalla pubblicazione e che mantiene la sua nervosa e palpitante attualità, pur essendo ambientata alla fine del Settecento.
La vicenda: il dodicenne barone Cosimo Piovasco di Rondò, decide improvvisamente, con un atto di grave violazione delle severe regole che disciplinano il rito del pranzo, di rifiutare il piatto di lumache che è in tavola. Scappa in giardino e si arrampica su un elce con la consueta destrezza con la quale insieme al fratello minore Biagio è abituato a scalare le più complesse e irte ramificazioni degli alberi intorno alla villa di famiglia. Non scenderà mai più dagli alberi e trascorrerà i cinquantacinque anni che gli restano da vivere tra rami e foglie senza mai mettere piede a terra, non perdendo mai, tuttavia, il contatto con la famiglia, col resto degli uomini e soprattutto col fratello Biagio.
Dall'atto di ribellione, prende il via, un'avvincente storia, fantastica e paradossale ma credibile pur nella sua struttura fiabesca. La scriverà proprio Biagio, un po' seguendolo come può, osservandolo dal basso, un po' raccogliendo le sue confessioni conversando l'uno dalla finestra l'altro da un ramo, e un po' fornendogli attraverso scale o arrampicate tra i rami quello che di volta in volta gli serve per la sua vita “rampante”. Teatro della vicenda è Ombrosa, incantevole luogo di fantasia non lontano dal mare e denso di boschi, localizzabile, tuttavia, in una zona rivierasca della Liguria. Il giovanissimo barone si sposta con l'agilità di uno scoiattolo da un ramo all'altro, organizzando con inventiva e genialità la sua quotidianità volante e vivrà incredibili avventure: una relazione d'amore giovanile che gli resterà sempre nel cuore, l'incontro con scugnizzi ladri di frutta, con operosi contadini, con agguerriti cacciatori, con temuti briganti, con soldati. Riuscirà perfino a partecipare da protagonista, pur senza abbandonare mai la sua insolita posizione di volatile, ai moti che seguiranno la ventata della Rivoluzione Francese.
L'irrefrenabile fantasia di Calvino, capace di mirabolanti trovate, fa sì che Cosimo possa perfino procurarsi libri infiammandosi alle nuove idee rivoluzionare e intrattenere corrispondenze. Tra gli alberi organizza anche una biblioteca, uno studiolo per scrivere e addirittura un archivio delle sue lettere e delle sue memorie: scritti misteriosi che rimarranno per sempre chiusi nelle cavità arboree nelle quali sono riposti. Cosimo morirà a sessantacinque senza toccare nemmeno allora terra. Per la sua scomparsa Calvino riserva al lettore un sorprendente finale a sorpresa, che si tace per non togliere a chi vorrà godersi il romanzo, il piacere e l'emozione di scoprirlo.
Ma il ruolo di protagonista di Cosimo Piovasco di Rondò è condiviso con la natura. “Tutto faceva insomma – scrive Biagio - sopra gli alberi... e viveva civilmente, rispettando il decoro del prossimo e suo proprio”. Sono gli alberi, insomma, ad avere un ruolo preminente nella vicenda. “ Gli olivi – racconta Biagio - per il loro andar torcendosi, sono a Cosimo vie comode e piane, per passarci e per fermarcisi, sebbene i rami grossi siano pochi per pianta e ci sia gran varietà di movimento... Sul duro sorbo, o sul gelso da more, si sta bene; peccato che siano rari. Così i noci, che anche a me, che è tutto dire, alle volte vedendo mio fratello perdersi in un vecchio noce sterminato, come un palazzo di molti piani e innumerevoli stanze, veniva voglia di imitarlo”.
Nei boschi i preferiti da Cosimo sono faggi e querce perché “sul pino le impalcate vicinissime, non forti e tutte fitte d'aghi, non lasciano spazio né appiglio; ed il castagno, tra foglia spinosa, ricci, scorza, rami alti, par fatti apposta per tener lontani”. Gli alberi rappresentano la forza e la bellezza della natura, ma anche lo struggimento del ricordo e della malinconia. La nobile, giovanissima bellissima Violante vive un'impossibile storia d'amore con questo ragazzo che non scende mai dai rami e, ormai adulta e in terre lontane dalla sua Ombrosa, vivrà di ricordo e di nostalgia. “Dalla sua terrazza guardava le foreste, gli alberi più strani di quelli del giardino della sua infanzia, e le pareva a ogni momento di vedere Cosimo farsi largo tra le foglie. Ma era l'ombra d'una scimmia, o d'un giaguaro”.
Non è tutto: gli alberi sono simbolo anche della caducità della vita. “La gioventù va via presto sulla terra – commenta mestamente Biagio – figuratevi sugli alberi, donde tutto è destinato a cadere: foglie, frutti. Cosimo veniva vecchio”. L'ultima confessione del barone rampante, ormai avanti negli anni, lasciata a un ufficiale francese con il quale si trova a conversare, è questa: “Anch'io vivo da molti anni per degli ideali che non saprei spiegare neppur a me stesso: ma io faccio una cosa che è certamente buona; vivo sugli alberi”. Biagio, chiudendo la storia che ha scritto sulla vita arborea del fratello, riflette amaramente: “Gli alberi non hanno retto, dopo che mio fratello se n'è andato, o che gli uomini sono stati presi dalla furia della scure”. Così annota sul suo diario: “Ombrosa non c'è più. Guardando il cielo sgombro mi domando se davvero sia esistita”.
Straordinaria e commovente la considerazione di Biagio che chiude la storia di Cosimo, abbinando la sua morte alla scomparsa degli alberi da Ombrosa. Ripensa al frastaglio di rami, di foglie, di biforcazioni, che ritagliavano spazi irregolari sullo sfondo del cielo e costruivano “un ricamo fatto sul nulla”; un ricamo – scrive – “che assomiglia alla mia scrittura” fatta di ghirigori, di sgranamenti in piccoli acini chiari, come semi puntiformi e “grumi di frasi con contorni di foglie e di nuvole”. Il ricamo dei rami, che non c’è più, è in tutto simile a quello della sua scrittura: l’uno e l’altra fanno parte di un sogno che è finito. Sembra quasi un atto di fede nello stretto legame che c'è tra la natura e la scrittura che da essa è ispirata e a essa è dedicata: una complicità, fatta di similitudine di segni, quando non d’identità, e, soprattutto, di un comune modo di sentire e di esprimersi.