Con Umberto Eco è scomparso l’intellettuale italiano contemporaneo forse più conosciuto e apprezzato nel mondo. Non è facile riassumere nel breve spazio di un articolo le molteplici ragioni di tale notorietà, e questa è già una prima, ancorché parziale, dimostrazione della poliedrica vastità dei suoi interessi e della multidimensionalità della sua opera.
Per tutti era l’autore del Nome della rosa, il primo romanzo pubblicato nel 1980, cui sarebbero seguite altre sei prove narrative, dal Pendolo di Foucault (1988) a Numero zero (2015). Un romanzo geniale, che al suo primo enorme successo fu accusato da detrattori invidiosi di essere un’opera fredda, concepita a tavolino e priva di autentica ispirazione poetica, il parto di un’erudizione enciclopedica messa al servizio di un plot giallo, una sintesi tra Sherlock Holmes e le Etimologie di Isidoro di Siviglia. In realtà, era un libro assolutamente originale, che poteva essere letto a vari livelli e quindi apprezzato da pubblici differenti, dai più sensibili ai rompicapi teologico-filosofici ai più appassionati alle trame poliziesche, dai cultori di tassonomie improbabili e liste vertiginose di cose bizzarre ai feticisti delle citazioni non comuni. Un’opera che trasmetteva contenuti alti in una forma letteraria popolare, quella del noir, e che fondeva sapientemente registri stilistici e codici interpretativi diversi. Non era divulgazione scientifica ma invenzione letteraria in forma ipertestuale, un esempio di quell’interazione fra lettore interpretante e testo teorizzata da Eco in Lector in fabula (1979), forse era un esercizio di stile postmodernista.
È questa la cifra della sua intera opera: l’abilità a mescolare e contaminare codici letterari e linguaggi differenti e la predilezione per una sorta di fenomenologia della contemporaneità, che spazia dalle sue espressioni artisticamente e scientificamente più alte alla cultura di massa, dall’iconografia della pubblicità alla mitografia della società dello spettacolo (celeberrima la sua Fenomenologia di Mike Bongiorno, 1961), dai fumetti alle trasformazioni del costume, del gusto e dell’immaginario collettivo.
Eco nasce come studioso di filosofia medievale, laureandosi a Torino con Luigi Pareyson sull’estetica di San Tommaso e continuando a coltivare interessi da medievista (i suoi studi sono ora raccolti in Scritti sul pensiero medievale, Bompiani, 2012). Entra in Rai negli anni Cinquanta, con Furio Colombo e Gianni Vattimo, venendo in contatto con i meccanismi della televisione e cominciando così a studiare dall’interno la logica e la tecnologia della comunicazione di massa. Mettendo a frutto le conoscenze acquisite anche attraverso questa esperienza, Eco partorisce Apocalittici e integrati (1964), un libro straordinario in cui inventa le due categorie con le quali ancora oggi si definisce l’atteggiamento fondamentale delle persone nei confronti delle innovazioni prodotte dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, a cominciare dalla Rete.
Il lavoro svolto all’interno dell’industria culturale italiana è il laboratorio in cui prendono forma anche gli interessi dell’Eco semiologo. Influenzato inizialmente dallo strutturalismo (sono il linguaggio e le sue strutture e non le classi sociali a determinare il pensiero e il comportamento degli uomini), ne metterà in discussione alcuni assunti fondamentali e ne mostrerà i limiti nella Struttura assente (1969), prediligendo la ricerca di una teoria generale dei segni e dei codici della significazione sfociata nel 1975 nel Trattato di semiotica generale, libro di formazione per interere generazioni di studenti. Il secondo osservatorio da cui Eco comincia a seguire e promuovere la trasformazione culturale e politica della società italiana nei primi anni Sessanta è la casa editrice fondata da Valentino Bompiani, nella quale entra nel 1959 e in cui svolge attività di editor fino al 1975. È all’interno di questo milieu culturale milanese che matura la sua partecipazione alla rivista Il Verri, fondata da Luciano Anceschi nel 1956, e poi alla neoavanguardia artistica e letteraria del Gruppo 63 con Nanni Balestrini, Renato Barilli e altri.
Eco è anche lo studioso del linguaggio dei fumetti e della letteratura popolare, con una predilezione per Charles M. Schulz e i suoi Peanuts, introdotti in Italia dal «linus» di Giovanni Gandini e Oreste del Buono, rivista con la quale collabora sin dal primo numero nel 1965. È il coraggioso traduttore degli Esercizi di stile di Raymond Queneau (1983), conservando una passione inesausta per anagrammi e crittografie, per l’arte combinatoria dei segni e gli enigmi del significato, per l’analogia segreta fra le cose e le relazioni nascoste fra i diversissimi elementi che la sua inesauribile curiosità intellettuale gli metteva a disposizione. Eco è anche il saggista ironico e satirico di Diario minimo (1963) e delle Bustine di Minerva pubblicate settimanalmente su l’Espresso (è ora uscita l’ultima raccolta, Pape Satàn Aleppe. Cronache di una società liquida, La nave di Teseo); l’osservatore disincantato dei nuovi cattivi gusti e dei nuovi miti dell’uomo di massa contemporaneo, decostruiti con parodistica acribia semiologica, nel solco di una ‘tradizione’ che lo accomuna con Ennio Flaiano e Roland Barthes, Italo Calvino e OdB; il bibliofilo, il collezionista d’incunaboli e cinquecentine rare che si aggira fra gli scaffali della sua biblioteca con la prossemica e la stupefazione con cui Jorge Luis Borges descrive la sua Biblioteca di Babele, consapevole che la ricerca di un Libro che contenga la verità di tutti gli altri è della stessa stoffa dei sogni fantastici.
Affascinato da terre e luoghi leggendari, da specchi e labirinti nei quali ogni idea di verità si disperde nel rinvio alla sua duplicazione/falsificazione infinita – o meglio «illimitata e periodica» come la biblioteca-universo di Borges – con cui svanisce la distinzione stessa fra realtà e finzione, Eco partecipa con un saggio intitolato L’antiporfirio alla storica antologia sul Pensiero debole curata da Vattimo e Pier Aldo Rovatti e pubblicata da Feltrinelli nel 1983. Qui sostiene il modello semantico aperto e collaborativo dell’enciclopedia contro il modello chiuso del dizionario (a forma di albero); difende il labirinto ipertestuale modellato sul rizoma della «rete», in cui ogni nodo è punto di disseminazione e sovrapposizione illimitate di nuovi piani e di nuovi rapporti, senza centro e senza gerarchia: «Il pensiero del labirinto, e dell’enciclopedia, è debole in quanto congetturale e contestuale, ma è ragionevole perché consente un controllo intersoggettivo, non sfocia né nella rinuncia né nel solipsismo» (L’antiporfirio, p. 79).
Eco è stato un intellettuale che ha praticato l’impegno civile, sempre con la leggerezza e la sprezzatura dei grandi. Ha contribuito a svecchiare la cultura e la società italiana degli anni Sessanta e Settanta, prendendo le distanze dalle ingessate ideologie di partito e contaminando la cultura della sinistra, talvolta eccessivamente compassata, dogmatica e restia a confrontarsi con i nuovi linguaggi della contemporaneità, con le novità che provenivano dallo strutturalismo e dalle comunicazioni di massa, dalla semiotica letteraria e dalla cultura popolare. Indicativa in questo senso è la fondazione nel 1979 della rivista mensile Alfabeta, che fino al 1988 raggruppò critici, poeti, intellettuali, militanti riconducibili alla variegata galassia della sinistra, ufficiale ma anche eretica ed estrema, da Antonio Porta a Paolo Volponi, da Rovatti a Omar Calabrese.
Eco ha saputo anche schierarsi a difesa della libertà d’informazione e di critica, quando il populismo e l’impero mediatico di Berlusconi minacciavano di porre il proprio sigillo definitivo sulla difficile transizione italiana dalla Prima alla Seconda Repubblica. E in ogni occasione in cui sentiva ripresentarsi il pericolo, prendeva la penna e la parola, intervenendo sui giornali e animando gli incontri di associazioni come Libertà e Giustizia, con Gustavo Zagrebelsky e altri. L’ultima avventura è stata l’uscita da Bompiani e la fondazione, con Elisabetta Sgarbi, di una nuova casa editrice, La nave di Teseo, motivata dalla necessità di salvaguardare il pluralismo editoriale italiano e di contrastare «Mondazzoli», il Moloch nato dall’acquisizione della RCS da parte di Mondadori.
Ricordiamo anche l’Eco delle ultime polemiche contro le degenerazioni di internet: «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli»; l’Eco che difende la superiorità tecnologica del libro cartaceo rispetto agli e-book, scommettendo sulla sua sopravvivenza.
Ci piace, infine, ricordare l’Eco fondatore del DAMS di Bologna; il professore di semiotica che a lezione riusciva sempre a insegnare divertendo, istrionico come un animale da palcoscenico, alternando citazioni da Peirce, Jakobson e Hjelmslev con analisi semiologiche di barzellette e facezie varie, con decostruzioni semiotiche di luoghi comuni, con giochi enigmistici, esercizi di falsificazione e variazioni infinite di teorie del complotto. Ancora un esercizio di leggerezza colta e di libertà di pensiero; ancora un modo d’interpretare i segni cangianti di quell’ipertesto multimediale che è la nostra contemporaneità.
Testo di Furio Ferraresi
Furio Ferraresi è ricercatore di Storia delle dottrine politiche nell’Università della Valle d’Aosta. Tra le sue ultime pubblicazioni: La politica della società. Ferdinand Tönnies lettore di Thomas Hobbes (1879-1932), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2014 e, con F.M. Di Sciullo e M.P. Paternò, Profili del pensiero politico del Novecento, Roma, Carocci, 2015.