6 novembre 2012: ricomincia la corsa di Barack Obama dopo che gli elettori statunitensi ne hanno confermato la presidenza per altri quattro anni. Dopo una campagna elettorale dura, all’ombra della recessione economica e sferzata dall’uragano Sandy, Obama si riafferma 44esimo Presidente degli Stati Uniti conquistando 332 grandi elettori con 60.602.103 preferenze, contro le 57.776.942 dello sfidante repubblicano Mitt Romney.

I consensi popolari sono stati però inferiori alle precedenti elezioni del 2008, contando sul 50% degli elettori anziché sul 53%, una perdita sensibile che si è verificata soprattutto fra l’elettorato bianco e gli indipendenti, delusi dal primo mandato. Ma con uno stacco di due milioni e mezzo di voti su Mitt Romney, la cui offerta conservatrice ha forse peccato rispetto alle esigenze delle molteplici minoranze, la vittoria di Obama è stata schiacciante, anche grazie agli elettori di Virginia, Ohio e Colorado.

La grande festa in favore di Obama, suggellata dai suoi sostenitori e dalla famiglia, si è svolta a Chicago, ma in tutti gli Stati Uniti è stata un’esplosione di entusiasmo: a New York, l’Empire State Building si è colorato di blu, e da tutto il mondo sono arrivate manifestazioni di gioia e sostegno. Il discorso del Presidente, pronunciato davanti a una folla adorante al McCromick Center di Chicago, resterà negli annali come uno dei più intensi del suo repertorio: “... Questa notte, 200 anni dopo che un’ex colonia si è conquistata il diritto di determinare il suo destino, il compito di perfezionare la nostra unione va avanti... Il meglio deve ancora venire...”. Sono parole che lasceranno il segno nella storia americana, dopo l’insuperabile “Yes, we can” dell’elezione precedente.

All’indomani della grande festa, Obama è rientrato a Washington dove l’attendevano le borse in forte ribasso e un faccia a faccia con l’agenda degli impegni istituzionali. Fra le questioni più urgenti da affrontare il “fiscal cliff” (la “rupe fiscale”), che richiede un’immediata azione di riforma del sistema fiscale, il taglio delle tasse per la classe media e le piccole imprese, e la creazione di nuovi posti di lavoro (attualmente il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti raggiunge il 7,9%); segue l’impellente compito di attuare una soluzione ai problemi dell’immigrazione (non va dimenticato che fra i suoi maggiori elettori oltre alle donne e ai giovani ci sono proprio le minoranze etniche, particolarmente sensibili a queste tematiche). Obama prevede inoltre di raggiungere un accordo con i repubblicani, che, pur non avendo raggiunto la maggioranza al Senato l’hanno mantenuta alla Camera, per affrontare assieme la sfida per il risanamento del debito, il disavanzo e la riforma fiscale. Fra gli impegni in scaletta anche il rafforzamento della politica industriale, la revisione delle regole finanziarie e le nomine della Corte Suprema.

Il paese, all’indomani del voto, si trova ancora diviso e a rischio di paralisi, e si consegna a Obama affinché ricrei coesione e instilli nuova linfa nel governo, confidando in parole e propositi che ritrovano la giusta umiltà, forse persa, in un’ammissione delle proprie debolezze e nell’apertura verso Romney. Facendo perno sui successi del passato mandato - l’intervento sul sistema finanziario globale, la ristrutturazione dell’industria automobilistica, gli stimoli all’economia, il contenimento dei danni della recessione, l’ampliamento della rete di copertura sanitaria e la lotta al terrorismo - Obama dichiara di volersi impegnare ancora e con maggior forza, anche grazie a un nuovo team di collaboratori. E se un grande segretario di stato come Hillary Clinton se ne va, (forse in previsione di una candidatura alla Casa Bianca nel 2016) al suo posto potrebbero arrivare John Kerry o Susan Rice, ambasciatore USA all’ONU.

Il meglio deve ancora venire...