Claudia Ruggerini, la partigiana “Marisa”, così come è stata inarrestabile nella sua lunga esistenza, costellata di sacrifici, rischi, esperienze terribili e meravigliose, ugualmente vulcanica e prorompente è nel racconto della sua vita. Farle domande precise è riduttivo e quello che emerge dalla sua narrazione, che a questo punto non può essere che a ruota libera, ha dello straordinario e la pone ai vertici delle donne da prendere come assoluto esempio morale e professionale.
Cosa ci racconta di lei?
Sono nata a Milano nel febbraio del 1922, in una famiglia molto povera, iscritta nel registro degli indigenti del Comune. Mio padre Andrea, iscritto al Partito Comunista nel 1921, licenziato dalle FF.SS. nel 1922 per aver partecipato al grande sciopero contro la violenza dello squadrismo fascista, veniva ucciso nel 1934 da una ronda fascista che lo aveva picchiato selvaggiamente. Mia madre Angelica lavorava negli anni ’20 come massaggiatrice alle Terme di Milano e successivamente come libero-professionista, per mantenere la famiglia. Sono riuscita a realizzare i miei sogni grazie alla mia determinazione, ma soprattutto grazie a mia madre, donna intelligente, aperta, lavoratrice, che desiderava per me un avanzamento nella scala sociale attraverso lo studio e l’attività professionale. Con la mia realizzazione personale si sarebbe soddisfatta anche una sua esigenza di “riscatto” rispetto a quei “borghesi” che consideravano la massaggiatrice facente parte della servitù, concetto per lei umiliante e intollerabile.
La bambina Claudia inizia da subito la sua battaglia, animata anche dal grande amore e gratitudine per la sua eroica mamma, che vuole “massaggiare nell’anima”, donandole una sorta di riscatto sociale, mettendosi in gioco con assoluta determinazione e passione.
Ho frequentato la scuola materna dove è cominciata quella che io definisco una violenza: ero mancina e quindi dovevo essere “corretta” e resa destrimane: ci riuscirono solo con il grafismo. Comincia da lì la mia ribellione. Arrivata alle superiori, su consiglio di un’insegnante, fui indirizzata verso gli studi umanistici e in una sola sessione ottenni diploma magistrale e maturità classica. Per proseguire gli studi, a 18 anni m’impiegai all’Acciaieria Redaelli, iscrivendomi a Chimica industriale. Capii presto che la chimica non rappresentava il mio ideale e nel 1942 passai a Medicina e Chirurgia.
Ecco forte il desiderio di prendersi cura degli esseri umani, ma anche entrare nella Resistenza può considerarsi come un prendersi cura del corpo sociale. Come avvenne questa esperienza?
Conobbi un gruppo di studenti antifascisti e nel luglio 1943 conobbi l’avv. Antonio D’Ambrosio, dirigente, in quel periodo, della Federazione clandestina del Partito Comunista napoletano. Entrata nella Resistenza, accettai compiti rischiosi come la distribuzione di stampa clandestina e il recapito di armi ai partigiani della Valdossola e nell’inverno del ’43 inforcai più volte la bicicletta fino a Piacenza per recapitare messaggi ai resistenti della zona. Ebbi anche l’occasione di entrare nel Carcere di S. Vittore, dove riuscii a carpire preziose informazioni per gli antifascisti.
Dopo tante tragedie, ecco il giorno più bello…
Il 25 aprile è stata una gioia per tutti, per me in modo speciale. Il CLN aveva deciso che una delle prime azioni fosse liberare subito i grandi organi d’informazione, e alle 8 del 25 aprile entrai nella sede del Corriere della Sera con D’Ambrosio, Gatto, Vittorini e altri giornalisti, accolti entusiasticamente dalla cellula antifascista interna. Subito furono messe in movimento le rotative e uscì in giornata la prima edizione del Nuovo Corriere della Sera.
Il rinnovamento passava anche per l’arte…
Con D’Ambrosio fui membro del Comitato d’Iniziativa tra gli Intellettuali ed ebbi l’opportunità di conoscere giornalisti, pittori, scultori, architetti, critici d’arte, poeti e scrittori: ci s’incontrava clandestinamente durante la Resistenza, poi, dopo la Liberazione, a Milano in piazza Cavour fino al 1947: germinavano pensieri creativi, appassionati, straordinari, forieri di una cultura nuova, colorata di speranza e di progettualità. Ricordo Gadda, Gatto, Vittorini, Morandini, Carrà, De Grada, Cassinari, Morlotti, Vedova, Treccani, Reggiani, Birolli e altri. Alcuni di loro diventarono miei amici e per me hanno rappresentato un’importante fonte di formazione e arricchimento culturale. In particolare, ricordo che, nel 1953, andai in delegazione da Picasso a Vallauris, per convincerlo, con successo, a concedere Guernica alla prima grande mostra su di lui tenuta a Milano.
È stata davvero un’esperienza unica, fatta di incontri con persone speciali, di quelle che lasciano il segno nell’anima e la sua “missione” sociale continuò, anche arricchita da questi scambi preziosi, con altri mezzi…
Verso la fine del 1947 ripresi gli studi di Medicina. Il direttore della Clinica medica dell’Università, al Policlinico, prof. Cesa Bianchi, mi offrì la possibilità di frequentare fino alla laurea la Clinica e lì conobbi il prof. Bruno Nolli, che divenne poi mio marito. Nel contempo frequentavo il corso complementare di Psicologia di Cesare Musatti, con lui preparai la tesi di laurea intitolata La tecnica del trattamento psicoanalitico nell’infanzia (a.a.1948-1949). Ricordo lo stupore e l’interesse suscitato dall’argomento originale e nuovo della tesi: al momento della discussione ci fu molta attenzione da parte dei professori in commissione e di tutti gli uditori e… alla fine, oltre a una votazione elevata, fui gratificata da un sonoro “brava!” proveniente dal fondo della sala da parte di mia nonna.
Una pioniera nel campo della ricerca sulla sofferenza infantile e sulla tecnica di cura, ai tempi una branca della clinica non così ovvia…
Su consiglio del prof. Musatti, che non riteneva quel periodo maturo per una specializzazione in Psicologia, mi iscrissi all’Università di Pavia , alla specialità di Neuropsichiatria, che ottenni nell’anno accademico 1951-1952 discutendo una tesi dal titolo Contributo allo studio della personalità e dell’opera di Vincent Van Gogh.
Sempre questo connubio affascinante e inevitabile tra arte e funzionamento del pensiero; d’altra parte l’esperienza artistica, “estetica”, ha a che fare con l’emozione, l’aisthesis appunto. Dopo di che…
Decisi, a questo punto, per continuare a dare il mio contributo al rinnovamento della società uscita dalla Resistenza, di impegnarmi esclusivamente negli Enti Pubblici della Sanità e lavorai come Consulente Neurologo per 33 anni all’INAIL di Milano e per 21 come neurologo presso l’INAM di Rho, diventando poi Primario Neurologo presso l’ospedale di Passirana di Rho. Operando nell’ambulatorio INAM, avevo molte occasioni di conoscere bambini segnalati come “problematici”. Per visitare questi bambini e per poter raccogliere un’anamnesi approfondita anche familiare, mi ero organizzata acquistando, a mie spese, un modello di cartella clinica ambulatoriale dove scrivevo, con i miei criteri, la storia del paziente e della sua famiglia. (La direzione INAM metteva a disposizione dello specialista un registro, dove in cinque righe si dovevano scrivere nome, cognome, provenienza, diagnosi: un po’ poco! Solo l’internista e il cardiologo avevano diritto a una cartella ambulatoriale). In ambulatorio rimanevo sola con il bambino e i suoi parenti (anche l’infermiera usciva), mi toglievo il camice bianco (sempre fonte di spavento), sistemavo sul tappeto una grande scatola di giocattoli e osservavo il bambino scegliere e giocare, poi lo visitavo. Spesso questo tipo di bambini veniva inviato in “scuole speciali”, dove invece bisognava inserire solo pazienti con patologie neurologiche o psichiche e non bambini che avevano un problema didattico-culturale! Intrapresi grandi lotte con alcuni direttori didattici per ottenere che i bambini “non patologici” fossero inseriti nelle scuole normali e ottenni ottimi risultati.
Anche questa un’esperienza molto coinvolgente e con risvolti reali significativi…
Nel 1987, al momento del collocamento a riposo, dopo essere stata insignita del titolo di “Primario Emerito di Neurologia”, ritornai in ospedale come volontaria per 10 anni, ritenendo da sempre la professione come “servizio” alla comunità.
Come è riuscita a conciliare l’impegno sociale con la sua formazione e la sua attività di neuropsichiatra?
L’impegno sociale, la mia formazione, l’essere neuropsichiatra erano condizioni “saldate” tra loro dentro di me: ho sempre avuto, come persona e come medico, una concezione “politica” di gratuità nei confronti della collettività. Infatti non ho mai svolto attività libero-professionale per evitare qualsiasi condizionamento, o peggio, ricatti mentali, sociali, lavorativi…
E ha anche trovato un altro modo per alleviare la sofferenza…
Nel 1988 una cara amica, Anna Mancini, e io decidemmo di istituire a Treviso la Fondazione onlus chiamata ADVAR, per l’assistenza domiciliare di malati terminali di cancro, con un’èquipe medico-infermieristica e formazione di volontari. Scegliemmo come modello il VIDAS milanese, di cui era presidente Giovanna Cavazzoni, che ci aiutò molto nel progetto. Negli ultimi anni è stato costruito anche un “hospice”– Casa del gelsi -, molto accogliente, con attività culturali rivolte a tutta la popolazione, a cui gli ammalati possono partecipare: in questo modo il paziente è considerato “persona” al centro dell’attività.
Lei è stata una grande combattente per la libertà: siamo oggi ancora consapevoli di questa sofferta conquista e quale uso ne facciamo?
È una questione di generazioni. Io so molto bene cosa significa non avere la libertà (di opinione, di stampa, di religione, di movimento, ecc.), conquistarla e rispettarla. Diverso è per le nuove generazioni, che spesso confondono libertà con licenza. Tocca agli adulti, ai media anche, educare! Ad esempio, l’anniversario del 70° anno della liberazione ha potuto chiarire, in maniera sentita e molto divulgata dai giornali e dalla TV, il contesto del prima e del dopo la Liberazione, anche grazie a manifestazioni pubbliche localizzate, promosse dalle ANPI provinciali.
Quali dei grandi ideali della Resistenza, di cui lei è stata protagonista, si sono realizzati, e quali non hanno avuto seguito?
I più grandi ideali della Resistenza erano la conquista della libertà, la sconfitta dei fascisti e la cacciata dei tedeschi… e questi ideali sono stati raggiunti. Figlia della Resistenza è stata la nostra Costituzione, che però non è stata e non è attuata in tutti i suoi dettami: ad esempio la parità dei diritti tra uomo e donna, una vera pacificazione generale, o anche una vera integrazione fra tutti i residenti.