Roberto Cecchetto, chitarrista dallo strumento affilato e fervida immaginazione, personalità autorevole del nostro jazz, è stato uno dei protagonisti più applauditi della seconda edizione di A Jazzy Christmas, appendice invernale del festival internazionale* Rumori Mediterranei* a Roccella Jonica in Calabria, con la direzione artistica di Paola Pinchera e Vincenzo Staiano. Un bell’appuntamento che ha rappresentato l’opportunità per approfondire alcuni temi, partendo dal suo ultimo lavoro, Live at Cape Town edito dall’etichetta indipendente Nau Records: “Si tratta di un disco dal vivo-esordisce che è la perfetta fotografia di un bel momento della mia carriera. Mi sono divertito molto in questa occasione a scrivere musica in modo spensierato, senza sovra-strutture, pensando solo a sviluppare le idee musicali.
Il titolo del disco è curioso, fa pensare all'Africa ma in realtà è stato registrato a Milano, cosa che mi fa pensare a un possibile allargamento dei confini e delle influenze che dovrebbero fare parte del bagaglio di ogni musicista. Anche tu ritieni che per suonare ancora meglio il jazz devi conoscere e assimilare altri stili?
Di sicuro l’apertura mentale è preferibile rispetto alla chiusura e oggi questo contenitore definito jazz è così ampio da includere spesso elementi contrastanti. Credo che il musicista debba seguire ciò che sono le sue radici e ciò che ha incontrato nel suo cammino; si impara ascoltando gli altri e la sintesi è opera di ciascuno di noi. Certo non si può procedere in tal senso senza aver ascoltato chi è vissuto prima di noi. Il desiderio di conoscere ed espandere i propri limiti dovrebbe andare di pari passo con il desiderio di migliorare come persona.
Qual è oggi il tuo rapporto con la tradizione jazzistica?
Il mio rapporto con la tradizione nel jazz non è mutato nel tempo, continuo ad avere rispetto e a imparare dai grandi musicisti della storia del jazz. Wes e Ornette sono tuttora ascolti frequenti, per non parlare di Miles e molti altri.
Come ti sei scoperto musicista? Hai scelto tu la chitarra oppure è accaduto il contrario? Quali sono stati i tuoi Maestri e riferimenti? Da poco se n'è andato Ornette, che immagino essere stato uno dei tuoi eroi…
Fin da piccolo, quando una chitarra è arrivata a casa, sono stato attratto dalla musica e al jazz sono arrivato intorno ai tredici anni, quando ho ascoltato Ornette Coleman, Archie Shepp e Albert Ayler attraverso una collana editoriale uscita in cassetta. Poco dopo ho cercato dischi di chitarristi e i primi che ho trovato sono stati Wes Montgomery e Jim Hall. Ornette Coleman è stato un formidabile iconoclasta la cui lezione risulta ancora attuale e stimolante.
Mi dai un aggettivo in più per Wes Montgomery cui vorrei abbinare anche due musicisti sulla carta opposti come Pat Metheny e Jimi Hendrix?
Wes Montgomery potrebbe essere luminoso, sincero, profondo; Pat Metheny è armonioso, malinconico, solare; Jimi Hendrix spigoloso, anticonformista, originale.
Hai cambiato obiettivi nella tua ricerca nel corso della carriera? Come si arriva alla percezione e definizione del proprio suono individuale?
Non ho mai cambiato obiettivi nella mia ricerca, sono sempre rivolto verso qualcosa nella musica. Quando si parla di definizione e percezione del proprio suono si ha a che fare con il tocco, il modo in cui approcciamo lo strumento, che possiamo migliorare e definire solo se lo percepiamo appunto, se ascoltiamo. Ascoltare, sentire, percepire sono gli stadi importanti del mio percorso come musicista.
Il tuo universo creativo sembra decisamente affollato viste le tante coordinate che tieni presente, vogliamo asciugare questo processo e dirci in maniera più diretta come le tue idee si trasformano in musica? Tutti i tuoi dischi sono interessanti, a me in particolare ne piace uno che facesti con Gianluca Petrella, che ricordo ne hai?
Con Gianluca facemmo un disco nel 2001 (Randomania, Strade) in quartetto con U.T. Gandhi e Andrea Lombardini, allora giovanissimo. Un disco che mi piace tuttora, in cui sono presenti le anime compositive di tutti e quattro. I miei brani nascono sempre allo stesso modo, improvvisando e fermando su carta le idee che mi piacciono, che poi vengono sviluppate successivamente, dandogli una forma e uno sviluppo.
C'è un qualcosa che ancora non hai fatto e in cui ti piacerebbe cimentarti e proprio per questo motivo, ti senti un musicista che ha raggiunto i suoi obiettivi?
Non mi sono mai sentito un musicista “arrivato”, anzi ho sempre molto da imparare ed è questo che mi piace, imparare a conoscere qualcosa che prima non si conosceva è assolutamente stimolante per me.
Come batte il polso del jazz in generale e cosa ti attende da qui alla prossima primavera?
Non saprei, potrei solo dire il mio punto di vista riguardo al polso del jazz: è sempre e solo una questione di ascolto: più grande è la capacità di percepire e più grande sarà la capacità critica nei confronti dell’anamnesi del jazz. I progetti per il futuro sono sempre in movimento, varie cose in via di definizione mi attendono per il prossimo anno che attendo con grande fiducia.