Il Sahara è Dio senza gli uomini
(Honoré de Balzac)
Dio ha creato paesi ricchi d’acqua perché gli uomini vi vivano, i deserti perché vi ritrovino la propria anima (proverbio targhi*)
Mi ricordavo del Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry e del suo piccolo aereo precipitato nel deserto. Mi ricordavo di aver avuto voglia di ripercorrere quelle magnifiche avventure. Volevo attraversare il deserto, e non solo con la fantasia… Non si trattava di “vuoto”, come sosteneva Philippe Diolé, bensì di “abbandonato”, ma abbandonato da chi, da Dio, dagli uomini, dagli animali?
Non mi trovavo, e trovo, del tutto d’accordo con l’affermazione, anche se l’etimologia di “desertus” è chiara. La vita nel deserto c’è, eccome… E allora, forse, questo abbandono riguarda noi stessi, essere umani indifesi che si trovano di fronte a una distesa di sabbia immensa che lascia solo tempo e spazio per riflettere sul nostro io, la nostra esistenza, le sue motivazioni e giustificazioni, le sue paure e speranze, le sue passioni, timori e ragioni, le sue modalità e finalità ultime, le persone e le cose che ne fanno parte.
I miei amici francesi chiamano il deserto “le baptême de la solitude”, forse questa idea si avvicinava maggiormente alle mie percezioni. Lo scrittore Paul Bowles, autore del bellissimo Il tè nel deserto (1949), mi comunicava proprio questo, quando mi lasciava leggere che “ …in questo paesaggio puramente minerale rischiarato dalle stelle come da razzi, persino la memoria scompare e non resta nient’altro che il vostro stesso respiro ed il battito del vostro cuore”. I Tuareg che vi vivono sono gli “uomini liberi”, come si definiscono loro, anche se il loro nome, in arabo, significa “anime perse”. E qui si perdono nell’incantesimo di vaste, luminose e silenziose regioni, potenti più di ogni altro scenario al mondo, un attimo unico e magico che offre la sensazione gratificante di trovarsi nel mezzo di qualcosa di assoluto. E lì sempre si tornerà, di nuovo, perché l’assoluto non ha prezzo. Alcuno.
Volevo avventurarmi in questo deserto, passare per il Sahara, per riscoprire me stessa oltre a parte delle mie radici. Per riscoprire la vita, le sue origini, la sua verità. Questa impazienza era iniziata tempo fa, quando mi trovavo a Tripoli, con uno sguardo perso e avido, conquistato e diviso fra la bellezza del litorale mediterraneo e i colori e odori della Medina. Soffiava il Ghibli, il vento caldo del sud, proveniente dal deserto e la sabbia arrivava ovunque, immancabilmente e ostinatamente. Entrava di soppiatto sotto le fessure delle finestre dell’albergo, che fischiavano clamorosamente per tutta la notte, penetrava nelle scarpe, si infilava sotto i vestiti e fra le pieghe delle gonne stropicciate, sgattaiolava fra le maglie delle mie leggere calzette a rete poco adatte a quell’ambiente. Mi ritrovavo quella sabbia rossa anche in bocca, masticavo granelli piccoli piccoli, le mie lenti a contatto soffrivano terribilmente. Non mi ero ancora avvicinata a quell’immensa distesa di vite e di pensieri, non avevo ancora visitato il deserto, che mi aveva sempre attirato per la sua dimensione d’immensità e di eternità, ma mi pareva di esserci. E c’ero, con l’immaginazione che galoppava, c’ero con i sensi e con il cuore. C’ero con la mente leggera.
Stranissima sensazione quella sabbia, una sensazione che si ripeteva ogni giorno, passeggiando per il centro della città ove bazar colorati, vocianti e allegri attiravano l’attenzione dei nuovi turisti. L’antica Piazza Verde (che oggi si chiama Piazza dei Martiri) mi riportava immediatamente al passato coloniale italiano, quella Piazza con la sua libreria italiana; lo stesso dicasi per la pasticceria libica vicino all’antica Cattedrale ora trasformata in moschea, ove un anziano signore mi raccontava di essere nato all’epoca degli italiani. Una simpatica guida libico-italiana mi introduceva alla vita e alla storia della moschea, dove mi sono silenziosamente introdotta insieme a un simpatico collega.
Le tracce del passato italiano erano ovunque, nei tipo di alberi che costeggiavano il lungo mare, e anche nelle pavimentazioni stradali, con curiosi tombini di memoria mussoliniana. Nella Medina compravo per mia madre quattro delicati bicchieri colorati per il tè da un simpatico e disponibile negoziante libico dall’italiano quasi perfetto. Le anfore in vendita - copie o reperti di dubbia provenienza? - ricordavano il passaggio nella regione degli antichi romani e l’impronta da essi lasciata un po’ dovunque. Avrei voluto incontrare e parlare con tante persone, preparare piccole interviste con tante fotografie strane e variopinte ma mi mancava il tempo. Pensavo a Leptis Magna, alle “navi del deserto”, allo “scatolone di sabbia” e alla “litania delle dune”; tante cose che mi riportavano alle memorie dell’antica Roma e a una storia lontana e dimenticata.
Ma poi, eccomi fra le dune, con la vita brulicante del deserto, le pernici delle sabbie, esili e di colore rossastro, che, al passaggio delle carovane, si levano in stormi per posarsi sulle groppe dei cammelli per poi scapparsene rapidamente. I fuochi per il tè, le tende, i datteri secchi che incollano i denti come mastice, l’acqua salmastra, i cammelli che corrono inseguiti solo da ombre, il caldo e la luce accecante. C’è vita, vita di uomini e animali che avanzano a stento, ma c'è. E poi le dune e i mauri della carovana che salmodiano la “litania delle dune”…
Dune, grandi dune ondulate come l’acqua del mare,
Dune dalla fronte calva,
Dune, che il vento lavora e tormenta senza tregua,
Dune, che una goccia d’acqua rinfresca una volta ogni cent’anni,
Dune, che vedete passare le carovane,
Dune melodiose, che cantate al levare del sole,
Dune dal burnus d’oro e dal burnus di neve,
Dune, dai fianchi sollevati come quelli di una donna prossima a partorire,
Dune, nostro sudario quando il simum soffia e ci travolge,
Dune, grandi dune del deserto, rendeteci dolce la strada,
E fate che arriviamo alla meta.
E qualche tempo dopo, un giorno, improvvisamente, l’Algeria, il profondo deserto del sud. Ma prima il passaggio ad Algeri, dove la notte non finisce mai. Non ci sono stelle ma mille luci illuminano i nostri occhi, i nostri visi di amici, di colleghi e forse di innamorati segreti. Le notti ad Algeri sono bellissime, le notti di Algeri sono magicamente profumate di gelsomino. Sanno di buono, di miele, zenzero e caramello, di zucchero filato rosa. Di dolce. Le strade si arrampicano, svettano verso l’alto, verso un cielo che sorride ai parchi rigogliosi nascosti della città. Le piante e i fiori si nascondono abilmente, quasi si rincorrono festosi, come nel giardino dell’antico e saggio hotel Saint George. Giocano a nascondino come bambini. Se avessi un po’ di talento e qualche colore in più fra le mani dipingerei un acquarello coloratissimo traspirante luce. Ho già tanti colori fra le mani, ma non li voglio scoprire. Li voglio lasciare alle piante secolari che fiancheggiano la mia passeggiata serena e infinitamente eterna.
Mi scoppia il cuore, in questa notte odorosa di Algeri. Non posso baciarlo ora, lo farò più tardi, forse. Non posso prendergli la mano ora, o accarezzarlo, lo farò più tardi. Non è ancora entrato nella mia vita, arriverà dopo, dalle sabbie di Leptis, ma non sarà tardi. Una moschea bianca, finemente ricamata come un antico e prezioso merletto, risplende altera nella notte. Attende la luna. I musulmani pensano che abbiamo due angeli custodi, noi, invece, ci crediamo affiancati solamente da uno, sempre presente, candido e profumato. Sembra che i miei passeggino amichevolmente sottobraccio, si è aggiunto lui, ora. Arrivato improvvisamente da lontano. Sono in tre. Cammino per le strade irte di Algeri, con le luci donate da capi di Stato vicini, cerco qualche sassolino da calciare per non pensare troppo. E’ tutto vero? Esiste forse la felicità?
La notte di Algeri non finisce mai. E’ eterna. Non ci sono stelle ma mille luci illuminano gli occhi degli innamorati che si sfiorano. La calda sabbia del deserto non è poi così distante e porta novità.
*targhi = dei tuareg