Se non fosse stato per l'arte mi sarei uccisa molto tempo fa
(Y. Kusama)
Siamo in America, agli albori del neofemminismo. Le donne rivendicano il diritto di essere se stesse: di esprimersi, di contestare, di criticare. E usano ogni mezzo per farlo. Il corpo stesso diventa linguaggio. La lotta per la parità dei diritti e contro ogni forma di discriminazione porta le donne a unirsi in associazioni, spazi di confronto, laboratori e gallerie in cui produrre – e proporre – un’arte sempre più polemica, sferzante ed eversiva. Gruppi come il WAR (Women Artists Revolution), nato nel 1968 dalla costola dell’AWC (Art Workers Coalition) associazione di critici, artisti e autori e curatori, o l’A.I.R. Gallery (Artists in Residence), residenza aperta per contaminazioni tra artiste, esprimono una chiara disapprovazione nei confronti di un sistema dell’arte da sempre maschiocentrico, e portano alla luce artiste come Ana Mendieta, Nancy Spero, Judy Chicago, Miriam Shapiro, Louis Borgeois, Eva Hesse e altre.
Tra queste altre ce n’è una che arriva da molto lontano. Approda negli Stati Uniti con la speranza di divincolarsi da una serie di costrizioni che la sua terra d’origine le ha cucito addosso. Si chiama Yayoi Kusama, viene dal Giappone. È molto fragile ma molto ostinata, e desidera solo trovare la sua strada.
Nata nel 1929 a Matsumoto, un piccolo paese tra le montagne vicino a Tokyo, Yaioi inizia a dipingere giovanissima, ma presso la scuola d’arte di Kyoto viene iniziata a una pittura di grande rigore formale, attraverso la quale non trova la possibilità di esprimere il proprio potenziale creativo. Il Giappone è ancora un paese troppo conservatore e lei vorrebbe andarsene. Quella di allontanarsi, però, non è certo una scelta facile, e non lo è soprattutto a causa della sua fragilità. Sin da piccola, infatti, Yayoi soffre di allucinazioni e disturbi ossessivo-compulsivi. La rigidissima educazione familiare non la agevola in questo, anzi, pare alimentare la sua depressione latente. La sua infanzia e la sua adolescenza vengono poi indelebilmente segnate dal rapporto malato che esiste tra i suoi genitori, nonché dall’atteggiamento ossessivo e controllante della madre nei confronti di suo padre. Attanagliata dal timore del tradimento, infatti, la madre obbliga la figlia a pedinare il marito. Yayoi si fa complice. Lo controlla. Vive nella paura. E questo le nuoce. Poi arriva la guerra. E il duro, sfiancante, ripetitivo lavoro nelle industrie tessili della zona. Tutta la sua vita appare una prigione. Un loop ossessivo dal quale vuole liberarsi. Cresce. Sogna. Dipinge. E cerca il coraggio di osare. Alla fine ci riesce. È il 1956 quando, iscrivendosi alla Art Students League di New York, riesce a ottenere un visto per studenti che le permette di partire. Si stabilisce nella grande metropoli e prende subito a frequentare l’ambiente artistico della città.
Nascono i suoi primi lavori pittorici, non più condizionati dalla tecnica tradizionalista appresa in Giappone, ma guidati dalla sua tendenza alla ripetizione morbosa di un solo elemento: un solo segno, una sola ossessione, da riproporre instancabilmente e all’infinito. Infinity Net è infatti il titolo che da a questa serie di tele monumentali (alcune sono lunghe persino dieci metri) interamente invase da piccolissimi segni ondulati che creano trame fittissime. Infinity Net diventerà poi il titolo della sua autobiografia, edita in Giappone agli inizi del Duemila e in Italia nel 2013.
I primi tempi del lungo soggiorno newyorkese – che la porterà a collaborare con Andy Warhol, ad avere uno studio nello stesso stabile in cui lavorano Judd, Oldenburg, Cornell e a vivere una lunga relazione con quest’ultimo – sono decisamente duri. Senza soldi, ma piena di sogni, Yayoi sopporta il freddo e la fame. Come racconta nella sua autobiografia “il freddo mi arrivava alle ossa e i crampi per la fame non mi lasciavano dormire, così non potevo fare altro che stare in piedi e dipingere”.
Nel 1960 lei e Rothko sono i soli ad essere rappresentati in un sondaggio internazionale riguardante l’astrazione contemporanea organizzata da Udo Kultermann al Museo di Leverkusen, in Germania. In questo periodo Yayoi realizza le prime mostre personali e vende un’opera a Frank Stella. Dipinge, ma già accarezza l’idea di un’arte più totale. Invasiva. Infinita nella sua stessa forma. La tela, soltanto, non può più bastare. Occorre andare oltre. Oltre la parete. Oltre la superficie bidimensionale. E da questa esigenza nascono le sue Accumulation e Sex Obsession, vere e proprie invasioni ambientali dal carattere allusivo e sensoriale. Siamo intorno alla metà degli anni Sessanta quando a queste installazioni vanno ad aggiungersi vere e proprie azioni performative, che mettono in campo il motivo decorativo-ossessivo che più d’ogni altro l’ha resa celebre: i pois. Yayoi realizza performance in luoghi pubblici come il Central Park o in spazi istituzionali come il MOMA, durante le quali dipinge pois sui corpi nudi di volontari partecipanti. Queste azioni vedono, però, il frequente intervento delle forze dell’ordine.
L’arte, lo sappiamo bene, è terapia. Il dolore, il trauma, il disagio trasposti sulla tela, nella materia o nell’azione comportamentale, portano a sublimare, a liberarsi, a portare fuori da sé ciò che ci avvelena. Come diceva Ana Mendieta “Ho due opzioni: essere una criminale o un’artista… ”. Scegliere di essere un’artista è certamente salvifico, anche se non sempre risolutivo. In ogni caso, il groviglio incandescente che si ha dentro, può alchemicamente prendere altre forme. Può diventare qualcosa d’altro, qualcosa che “l’altro” può accogliere, leggere, ricevere e interpretare. Per questa ragione, i pois ripetuti all’infinito sono metafora, trasposizione, sublimazione di una ossessività che Yayoi riesce a convertire. Nel 1966 partecipa con Louise Borgeois ed Eva Hesse a una mostra collettiva titolata Astrazione Eccentrica. Lo fa con una installazione dai riferimenti niente affatto casuali: in un sistema ancora incentrato sul patriarcato, la moltiplicazione infinita della forma fallica – che ne simboleggia potere e virilità, supremazia e totalitarismo – appare più che idonea.
E allora, ecco che lo spazio viene invaso da sacchetti fallici bianchi e pieni di ovatta. Una vera e propria accumulazione in cui specchi riflettenti accolgono un tappeto invaso da candide protuberanze. Nello stesso anno Yayoi viene censurata alla Biennale di Venezia. Ben incastonata nella cornice polemica di quegli anni, l’idea dell’artista è quella di indossare un kimono dorato per poi sedersi in un prato di sfere metalliche messe in vendita a un prezzo simbolico. Il chiaro riferimento al funzionamento del sistema dell’arte non viene accolto positivamente dagli organizzatori della Biennale, che le vietano di esibirsi, benché siano stati essi stessi a invitarla ufficialmente. In definitiva, la performance Narcissus Garden viene annullata. Ma la Kusama tornerà in Biennale più avanti, esattamente nel 1993, realizzando una delle sue più note installazioni site specific: una sala di specchi occupata da monumentali zucche pervase di pois neri. Sculture giganti analoghe a questa le verranno commissionate altrove, negli anni a seguire. Una delle più note si trova proprio in Giappone, a Naoshima, un’isola di pescatori. Si intitola Pumpkin, è una zucca gialla a pois neri situata nel mare di Seto.
Ma torniamo all’esperienza americana. Questa si rivela rigogliosa e rivelativa: le permette di conoscere se stessa, di elaborare il proprio linguaggio. Ma dura meno di un ventennio. Nel 1973, in seguito alla morte di Cornell, Yayoi rientra in Giappone. Dipinge, scrive poesie, lotta con il proprio malessere. Torna a New York. Espone. Torna ancora una volta a Tokyo, si fa ricoverare presso il Seiwa Hospital di Tokyo. Poi riparte per New York, ma le sue condizioni psichiatriche – che già nel corso degli anni l’avevano più volte portata all’esaurimento nervoso – peggiorano. Viene sempre più frequentemente sorpresa da allucinazioni e attacchi di panico. E così, nel 1977 decide di sua spontanea volontà di rientrare in Giappone e farsi ricoverare in un ospedale psichiatrico, per ricevere le giuste cure e il controllo opportuno. Quel ricovero diviene permanente. Tanto che ancora oggi la Kusama vive in quell’ospedale. Ha uno studio, all’interno di un monolocale con ingresso indipendente, nel quale si chiude ogni giorno, dipingendo pois a un ritmo serrato. "Un pois ha la forma del sole, che è un simbolo dell'energia di tutto il mondo ed è la nostra vita vivente, e ha anche la forma della luna, che è calma (…). Un pois è movimento in divenire e tanti pois sono un modo per indagare l’infinito…”.
Ogni giorno lavora a un’opera, anche fino alle tre del mattino. La pittura è il suo tutto: la tiene in contatto con il mondo, le permette di reinventarsi l’infinito. I pois generano costellazioni. Ampliano la realtà. Sono un percorso che non ha mai fine. Sono il suo alfabeto e negli ultimi anni l’hanno persino portata a collaborare con una delle case di moda più note al mondo, la Louis Vuitton, per la quale ha realizzato una linea di borse, portafogli, occhiali da sole, foulard e accessori vari, fino a una intera collezione di capi d’abbigliamento.
Yayoi Kusama è oggi una delle artiste viventi più pagate nel circuito delle aste. Esposta in musei come il Walker Art Center di Minneapolis, il MOMA di New York e la Tate Gallery di Londra, vive e lavora presso il Seiwa Hospital di Tokyo.