Il disprezzo della morte e del dolore sono, a parere di Cicerone, l’espressione massima di quella forza che, unita alla rettitudine, alla fermezza e al coraggio è segno distintivo del vir, il nome latino del maschio per nobilitare il quale fu coniata la parola virtus che ne conteneva tutti gli attributi.
Dunque la natura del termine appare eminentemente ed indiscutibilmente maschile eppure la sua femminilizzazione ha radici lontane. Lo stesso Cicerone nella sua opera Sulla natura degli dei diede inizio al processo personificando la virtù in una dea, ma fu il Cristianesimo a manipolare decisamente il gene della parola al punto di farne un sinonimo di quella purezza che significava controllo degli istinti, specie quelli di natura sessuale.
Con una operazione che definirei di travestitismo linguistico la virtù è andata pian piano indossando gli abiti casti e pudichi della donna morigerata, una donna sempre più espropriata del suo corpo divenuto tramite di colpa, veicolo di tentazione anziché arca della vita, luogo sacro che custodisce e nutre il seme della specie.
Il corpo attraverso il quale era passato il respiro divino che permetteva alla Pizia di profetare in forma di vapore odoroso, in una compenetrazione mistica che era accoglienza e abbandono all’energia vivificante, viene sacrificato e costretto a coprirsi di pudore e vergogna in una agguerrita affermazione di quella virtù, che è rinuncia alla pienezza della vita, mortificazione e sacrificio.
L’immagine dell’antica Dea dai grandi seni fecondi e dal ventre gravido di potenza generante, la Madre con-creatrice dell’Universo, Signora degli animali, lasciava il posto ad emaciate e penitenti figure femminili, assottigliate ed evanescenti, svuotate di ogni fisicità come quelle che ci restituiscono le icone pittoriche del Medioevo.
Il tradizionale sapere taumaturgico di medichesse e guaritrici, che prescrivevano bagni, aria, erbe, rimedi che presupponevano l’esposizione e il contatto viene sostituito da salassi e sanguisughe. L’antica scienza appresa nei secoli dall’osservazione e dalla confidenza con la Natura viene dapprima screditata e poi eliminata come pratica magica esercitata da fattucchiere in connivenza demoniaca e, in fine, sostituita dalle ricette dei dottori formati nelle Università dalle quali le donne erano escluse.
Persino la sapienza profetica vien messa in discussione se passa attraverso un corpo femminile: non più considerata illuminazione, visione mirabile come nel caso dei profeti biblici, “evento capace di sprigionare l’entusiasmo, come dice Plutarco nel De Amore”, bensì contaminazione e follia, una sorta di possessione dalla quale guarire. Il corpo deve essere costretto, negato perché possa trionfare quella virtù, ormai lontana e separata dall’origine del suo nome, che si identifica con le catene, talora anche dorate, che legano le donne alla propria condizione di soggezione.
Per una delle tante, crudeli ironie della sorte abbiamo finito per portarci addosso come una lettera scarlatta una parola che non ci appartiene, in nome della quale si sono perpetrate crudeltà e violenza, una parola colma di sofferenza e di menzogna, spesso sinonimo di schiavitù.
Gli Umanisti tentarono di restituirle la sua originaria impronta di temprato coraggio, ma, forse in conseguenza della crescente perdita di eroi ed eroismi, gli uomini hanno iniziato ad abbandonare decisamente la virtù per diventare depositari del valore, un termine che pare spostarsi sempre più dall’area semantica della forza a quella del peso sociale, del potere direi quasi monetizzabile in termini di ruolo riconosciuto e come tale meritevole di ricompensa e considerazione.
La storia, anche quella delle parole, ha obbedito al punto di vista dominante dando rilievo al valore e togliendone alla virtù, rilievo linguistico ma non solo, perché sappiamo bene che le parole traducono modi d’essere, danno forma ai pensieri che, nel tempo, diventano azioni.
La visione androcentrica, patriarcale, esercitando il suo potere anche sul linguaggio ha finito per identificare i valori dominanti con qualità maschili come la competizione, la tendenza impositiva, l’aggressività, il dominio, mentre la gentilezza, l’accoglienza, la tenerezza, la compassione sono state associate a un “femminile” sottomesso, relegato a un ambito privato, a una affettività ammutolita, a una zona appartata, poco appariscente e spesso per questo incapace di far sentire la propria voce, la forza del proprio cuore.
Che fare dunque di queste parole intriganti, scomode e insidiose?
A parziale risarcimento del pasticcio semantico che ci ha penalizzato per secoli, direi intanto di riprenderci la virtù dandole nuova forza, nuova potenza significante, ritrovando dentro questo nome i segni del coraggio, che è quello delle donne che affrontano la sofferenza del dare la vita: “vorrei tre volte trovarmi nella battaglia anziché partorire una sola volta” dice Medea nell’omonima tragedia di Euripide; donne che conoscono il dolore e il sacrificio estremo di dare alla guerra i propri figli per i quali sarebbero pronte a morire; donne che, con fermezza e cura, tessono la vita con il filo dell’amore dipanato dalle spole antiche della loro memoria ancestrale.
Accogliamo di nuovo in questa parola la rettitudine che è la capacità di incontrare gli altri a viso aperto, con verità e consapevolezza del Bene.
Affidiamole il rispetto per il corpo femminile che, dopo essere stato per secoli negato, è oggi ostentato, mercificato, sottoposto a una violenza che lascia esterrefatti. Nella letteratura, nel sistema mediatico, nel linguaggio passa e si alimenta l’oscenità, che, vorrei ricordare, è alla sua origine parola del sacro, un termine della lingua augurale che significava “di cattivo auspicio”. E non è forse vero, come hanno evidenziato studiose come Riane Eisler, che nella storia ricorre un legame inquietante tra le fasi di forte repressione e violenza sulle donne e le avvisaglie di guerra?
Diamo alla virtù il compito di custodire la capacità di usare la voce per esercitare il potere risanatore della parola, che crea condivisione, che si prende cura della solitudine, che induce il sonno con la ninna nanna, che allontana la paura con la tenerezza, che racconta e prega; una parola che alla donna spetta di trasmettere come alimento dell’anima inscindibile dal nutrimento corporeo.
E’ questa virtù che restituiamo agli uomini che ne sono i “legittimi proprietari” dopo averla arricchita di significati che sono un contributo da parte delle donne che, per secoli, l’hanno portata come un pesante fardello di estraneità, come una lacerante, ineluttabile condizione di esistenza, con l’invito ad accogliere senza timore e senza pregiudizi le qualità che essa contiene, a non aver paura di indossare “il femminile” con il suo portato di amorevolezza, di flessuosità, di pazienza e di compassione.
E in questa restituzione di parole potremmo accampare qualche diritto anche sul termine “virtuale”, che ha la medesima radice di virtù benché forse non siano tanti ad essersene accorti. C’è molto di femminile nel suo significato di “esistere solo nell’attesa”, nel viaggiare stando fermi là dove si è. Le donne sono abituate da tempo immemorabile a costruire mondi per sfuggire alle recinzioni della loro quotidianità, a sognare vite mai vissute, ad attraversare esistenze parallele nelle quali realtà e fantasia si mischiano secondo alchimie alle quali può accedere soltanto chi ha il potere della vita.
A loro dunque il compito di immaginare un mondo nel quale la virtù abbia valore e sia libera consonanza di Bellezza e di Bene.