I fiori della fragilità di Elias Nardi sono appesi a un filo nella copertina disegnata da Paul Bonduelle; stanno seccando al sole, la loro bellezza si conserverà. Nel terreno, invece, rimangono i buchi lasciati dai gambi sradicati. Non so se questa fosse l’intenzione, ma quando ho letto che il terzo album di Elias era stato ispirato dalle visite ai cimiteri di guerra nelle Fiandre Occidentali, ho pensato che i fiori dipinti potessero rappresentare proprio i soldati strappati via dalle proprie case, dalle famiglie, dagli affetti, dalla vita. Rendere la profondità di un sentimento forte come quello che si prova di fronte all’abominio della guerra, e ai suoi morti, non è semplice, soprattutto senza usare le parole. Il vantaggio di Elias, in questo tentativo, è che maneggia una materia, la musica, in grado di raccontare la sofferenza, il dramma e perfino la morte attraverso la bellezza che passa per le note.
Con Flowers of fragility, il toscano Nardi arriva al suo terzo album. Il primo si intitolava Orange tree, e se immagino un albero genealogico delle influenze musicali, almeno tre spiccano su tutte: il jazz moderno, il rock progressivo e la tradizione mediorientale legata allo strumento che sta al centro di questo progetto, il liuto arabo. Se il secondo disco, The Tarots album era un lungo e curatissimo esercizio lirico in cui Nardi si faceva ispirare dalle sculture di Niki de Saint Phalle, è con questo lavoro che la formazione diventa “group”, e trova una sintesi fuori dal comune.
Carlo La Manna è confermato al basso, Didier Francois (già presente su Orange) torna alla viola d’amore a chiavi, e le novità sono due: la flautista iraniana Nazanin Piri-Niri e nientemeno che Daniele Di Bonaventura al bandoneon. Diciamolo subito: se questo è un disco italiano di valore assoluto, è anche per la grazia e la naturalezza con cui ognuno dei musicisti porta la propria sensibilità e le proprie origini a servizio, o forse sarebbe meglio dire a completamento, di composizioni di grande qualità.
Basterebbe il brano che dà il nome all’album, e che lo apre: un avvio perfetto, non solo perché anticipa alcuni degli argomenti musicali del lavoro, ma anche perché introduce, squadernandoli con cura, i suoni che accompagneranno il resto dell’ascolto. E’ l’oud a presentare il tema del brano, sempre sostenuto dal basso, prima che la viola si lanci nel primo (straordinario) solo del disco, passando il testimone al bandoneon e poi al flauto, che sigilla questa serie di “passeggiate” individuali sfumando in un finale in cui la musica si addolcisce, con un intento quasi consolatorio. In Le coeur di Nina basso e bandoneon dialogano, e il racconto si arricchisce quando l’oud e il flauto entrano in scena, incrociando il substrato jazz con le culture mediterranee e mediorientali.
Dopo il monologo per oud Afsnaeh, una dimostrazione di bravura di Elias, Il dono si avvita intorno a una danza, una sequenza di ripetizioni che si allenta verso la parte centrale. Si percepisce una crescente inquietudine, e il contrasto tra la ripetizione incalzante di un tema e le escursioni dei singoli strumenti fanno pensare a una dicotomia ragione/sentimento o realtà/sogno. In Riflessioni, che si apre con il basso che fa da metronomo e prosegue con una splendida parte di viola, alla coralità si arriva da una strada diversa: le voci degli strumenti si sovrappongono, invadono gli spazi di silenzio, come se le riflessioni del titolo facessero emergere punti di vista diversi.
Il disco si chiude con Sine nomine, firmato da Di Bonaventura, un altro gioiello, un viaggio che parte dalle coste greche, arriva alla penisola anatolica, e probabilmente continua per vie che portano ancora più a est. Rimane il basso a ricordare l’Europa e il suono dell’occidente in questo esperimento di crogiuolo musicale in cui non esiste necessità di integrazione, se non quella in cui ogni particella culturale aggiunge senza costare rinunce: una fusione che sarebbe meglio chiamare arricchimento, o forse semplicemente evoluzione.